Stasera i Coram Populo al Teatro dell’Acquario

Ripartire dal caos per riordinare il mondo: è il principale compito degli artisti. Lo è dei musicisti in primo luogo. È un principio, è un dogma, è un istinto tutto da sviluppare. È una religione per chi, come Pino Cariati, di musiva vive, respira, si nutre e nutre. Maestro di chitarra battente e di testo d’autore, Cariati dirige i Coram Populo sin dal giorno della loro formazione ufficiale (avvenuta nel 2002 ma esistente da sempre come fonte d’arte d’un paesino, una frazione dove, è risaputo, «sono tutti musicisti») portandoli a navigare, negli anni, attraverso i grandi alvei della musica più intensa, ricercata, tracciante.

Non è un caso che sei delle dodici tracce del loro nuovo album – Panta Rei – fondano la propria esistenza su quel “co-autore” che ispira la poesia e ogni altra arte, in tutto il mondo, sin dalla notte dei tempi, che è l’Anonimo: l’anonimo cantato da donne e uomini, sui campi del lavoro quotidiano, nei cortili dei mestieri di casa, sulle imbarcazioni da pesca o dei grandi viaggi, a volte, senza ritorno.

Neppure è un caso se, invece, nell’essenza dei testi interamente ideati dal maestro può sentirsi l’atmosfera poetica del più imponente tra i cantautori italiani del Novecento, Fabrizio De André: «Un Dio innocente e crudo/figlio di guerra e amore/mi ha scavato l’anima/col piombo e col terrore/Mi ha costretta ad essere/sorda a ogni richiamo/di quel profumo d’estasi che rende tutto umano…» si sente nell’attacco de “Il ballo di Dafne”, ossia della mitologica Ninfa che sconvolse Apollo, arrangiato per strumenti e ritmi della timbrica folk.

Oppure: «Quest’uomo inquieto che il mare ha portato/vento di terra riportati via/per quante spiagge abbia già calpestate/verso altrettante disegna la via…» incomincia la prima traccia del disco, “Odisseo”, che non si discosta dalla metrica faberiana pur restando nel solco dell’originalità autorale. Ma è nel florilegio degli arrangiamenti che i Coram si differenziano da ogni altro gruppo – se si vuole – etnofolk della tradizione sud-italica, tracciando in una multicolore poli-strumentalità l’autenticità dello spartito.

Non c’è dubbio che si sentono le influenze di una grande storia vocazionale dell’arte di musicare. Influenze sciorinate, per esempio, nella riproposizione di quei primi vagiti del canto arcaico come della filastrocca medievale, che riecheggiano, altro esempio, nei versi di “Tri rosi”: «Viu tri rosi penniri a na cima/nun sacciu quali prima m’i piglia’/La genti dici pigliati la prima/ ca la sicunna nun ti po’ manca’/La granni ch’è patruna di lu mari/cummanna ri barchetti ad una ad una/La piccula sa fari li catini/La minzaneddra li sa ncatina’…».

È insomma più che un lavoro, un capolavoro, da ascoltare d’un fiato, da bere in una danza, da vivere in un concerto. Il prossimo è stasera (giovedì 14 aprile) al Teatro dell’Acquario, via Galluppi, Cosenza, ore 21.