Disabitudine alla libertà. Da Cosenza a San Luca (di Gioacchino Criaco)

Disabitudine alla libertà
Da Cosenza a San Luca

di Gioacchino Criaco

Il metal detector suona, sono le scarpe, le tolgo, ripasso, non suona più. “Le spiace se facciamo un controllo? Alzi le braccia e allarghi le gambe”. -Veramente mi dispiace- vorrei dirlo tutte le volte che capita, sia un aeroporto, un carcere, un tribunale. Ho sessant’anni, non mi va di farmi mettere le mani addosso. Non mi andava nemmeno a venti. A volte mugugno, altre provo a discutere sulla necessità. Poi abbozzo. Non sono mai felice di sentire mani estranee sul mio corpo, di vederle infilate fra i miei oggetti personali. Spero che il rifiuto, quantomeno mentale, mi duri finché campo. Penso che assuefarsi a qualunque azione che limiti la libertà, anche all’azione più giusta, sia un danno al convivere civile. Non ci sono ragioni al mondo per disabituarsi alla libertà, né di vita, né di sicurezza, né di Legge. Ci si adatta, è vero, alcune volte giusto, ma sottoporsi con gioia a qualunque tipo di controllo è un atto innaturale.

A Milano, personalmente, non mi è mai capitato di essere fermato, controllato, senza che ci fosse una ragione evidente. In Calabria a qualunque appuntamento si debba andare bisogna metterci nel tempo necessario almeno un quarto d’ora di un eventuale controllo.
Che una persona, a sessant’anni, venga fermata per strada, a piedi, senza che ci sia una ragione evidente, è un fatto che dovrebbe accadere in via eccezionale.
Pure che una Fondazione culturale venga sciolta e commissariata è, o dovrebbe essere, un evento super eccezionale.

Il potere che la Legge dà sul limitare la libertà, ogni tipo di libertà, è un potere straordinariamente invasivo, incommensurabilmente delicato, dovrebbe essere dato ai migliori fra noi, a quelli che hanno più di tutti il senso e il valore della libertà, che siano in grado di esercitarlo quando davvero non ci sia altro modo di tutelare la libertà collettiva.
Quello che è accaduto a Gabriele Carchidi, il commissariamento della Fondazione Alvaro, toccano libertà fondamentali, la stampa e la cultura.
Uno, legittimamente, può non amare Gabriele, ma non si può gioire tifando perché gli vengano somministrate lezioncine.
Si può anche criticare la conduzione di una fondazione culturale, ma far finta di nulla mentre si toglie un professore e lo si sostituisce con un magistrato, dentro la Fondazione nel nome di chi è stato il più grande esempio culturale calabrese degli ultimi secoli, non è un risvolto tranquillizzante.
Disabituarsi alla libertà, alzare le braccia e allargare le gambe al suono di un ordine, senza avere il minimo moto di ripulsa, alla fine crea società sbagliate.