(di Marco Travaglio – ilfattoquotidiano.it) – Graziano Mesina, il bandito sardo morto ieri a 83 anni poche ore dopo la scarcerazione per motivi di salute, lo conobbi nell’ottobre 1992. Era uscito in libertà condizionale dopo 30 anni di galera. Viveva a San Marzanotto d’Asti, ospite dei compaesani coniugi Quai, che gli avevano dato un lavoro. Indro Montanelli, mio direttore al Giornale, che per i banditi sardi aveva un debole fin dall’infanzia trascorsa a Nuoro dove il padre era preside di liceo, voleva incontrarlo. Organizzai.
Il 30 ottobre siamo a casa Quai, attorno a una tavola imbandita di porceddu e altre prelibatezze sarde. Il Vecchio e il Bandito si intervistano a vicenda, davanti al mio registratore. Ma Montanelli preferisce che la cosa resti riservata: “Sto brigando col presidente Scalfaro per fargli avere la grazia (gliela darà poi Ciampi nel 2004 e gli verrà revocata nel 2016 dopo una nuova condanna a 30 anni per storie di droga e sequestri, ndr). Ogni parola sarebbe un danno”. Racconta a Mesina i suoi anni verdi nella Sardegna d’inizio secolo. E “Grazianeddu”: “Io sono del 1942. Ma quella Sardegna feci in tempo a conoscerla. Da bambino pescavo le trote con le mani. Poi purtroppo fui costretto a usarle per altri scopi, le mani. I miei erano pastori e agricoltori poveri, con 11 figli da allevare. Io ero il penultimo. Arrivai alla quarta elementare, poi presi a pietrate il maestro e mi mandarono a guardare il bestiame. Diventai subito un ribelle, un tipo ‘scintilloso’. Per i soprusi dei proprietari terrieri, dei carabinieri e dei giudici”.
Montanelli. La prima condanna?
Mesina. Nel 1956, a 14 anni: possesso di un fucile che un amico aveva rubato in una cascina. Condannato dal pretore a 5 anni con perdono giudiziale. Nel 1960 partecipo alla festa dei coscritti che partono per la visita militare a Nuoro: qualcuno spara in aria, io colpisco il lampione per nasconderci meglio, ma i carabinieri mi vedono e mi portano in caserma. Evado subito dalla cella. Pur di riacciuffarmi, mi mandano a dire che, se mi costituisco, mi lasciano libero. Accetto e, dopo sette giorni al carcere di Nuoro, sono di nuovo fuori. Ma al processo mi danno sette mesi: uno per l’arma, sei per l’evasione. In fondo, avevo solo rotto un po’ la porta della caserma…
Mo. Eh già, solo una porta un po’ rotta… E poi?
Me. Esco nel ’61 e vado a Ozieri, da mio fratello Antonio. Avevo un cane bellissimo, Meruledda (Nera): custodiva il gregge e andava a caccia, pareva una persona. Un campione. Mi acchiappava lepri, quaglie e conigli e me li portava vivi. Ma un guardiano di vigne, per invidia, me lo uccise a fucilate: disse che il cane gli mangiava l’uva, ma quando squartai il cadavere non ne trovai traccia. Non contento, il vignaiolo sparò una schioppettata pure a me. Allora lo aspettai dietro un canneto, gli diedi una passata di botte, poi montai a cavallo e lo costrinsi a corrermi davanti per i monti.
Mo. Il mio Far West…
Me. Al processo mi coprì di accuse e il giudice mi diede due anni e mezzo, più altri due per un paesano che avevo ferito a duello. La prima condanna seria fu quella del 1965, a 16 anni per tentato omicidio di uno di Orgosolo: un errore giudiziario, io non sapevo nemmeno chi fosse, quello lì.
Mo. Ma evadeva sempre no?
Me. Ho la fortuna di avere i polsi più grossi delle mani… Ci sono riuscito nove volte e ci ho provato oltre 40. E mi portavano sempre nelle carceri di massima sicurezza. Ma per me non esiste carcere incompatibile con l’evasione: tutti hanno almeno un punto debole. E io lo scoprivo subito.
Mo. Gli attrezzi per segare le sbarre come se li procurava?
Me. Le rispondo come rispondevo ai giudici: i seghetti li trovo nei materassi. C’è sempre qualche ex detenuto che li dimentica, io arrivo e li trovo… Ero costretto… a evadere. Io chiedevo di studiare, in carcere. Mi rispondevano di no: ‘Tu sei troppo furbo già da ignorante, figurarsi da istruito’. Così, non avendo nulla da fare, pensavo sempre a come andarmene.
Mo. Dovrebbe scrivere Le mie evasioni. L’ultima quando fu?
Me. L’ultima riuscita fu a Lecce, nel 1976. Poi tante altre, fallite per un soffio. Potevo andarmene anche dal carcere di Novara, l’ultimo: il più sicuro d’Italia, secondo loro. Ricordo la faccia del ministro della Giustizia Silvio Gava, che nel ’69 visitava Badu ’e Carros, a Nuoro. Ero guardato a vista, giorno e notte. Lui si complimentò per la sorveglianza. Gli dissi: ‘Anche questo carcere va benissimo’. E lui: ‘Per far cosa?’. E io: ‘Per scappare’. Mi trasferirono subito, in elicottero.
Mo. E la prima fuga?
Me. Nel ’62, dall’ospedale di Nuoro, dove mi avevano trasferito dal carcere per un’emorragia: un malanno ereditario, ma quando non veniva me lo procuravo io. Riempii il letto di cuscini, per far credere alle guardie di essere sotto le coperte. Poi la notte mi calai dalla finestra del quarto piano, aggrappato alla grondaia. Il medico mi vide passare al secondo piano e lanciò l’allarme. Ma i carabinieri di su insistevano che ero a letto. Mentre litigavano, io scavalcavo e mi infilavo in un tubo delle fogne. Uscii la notte dopo, ancora in pigiama bianco: una coppietta che amoreggiava rischiò l’infarto, pensando a un fantasma…
Mo. Chi la ospitava? Ce lo può dire, saranno tutti morti.
Me. No, sono tutti vivi… Dormivo nei boschi e nelle grotte. Ma, quando avevo bisogno di mangiare, scendevo in paese, al tramonto, travestito da uomo ricco: capelli impomatati, giacca, cravatta, valigetta 24 ore con le armi dentro. L’avevo elaborata io: un buco per infilare i proiettili, l’altro per sparare senza neanche aprirla.
Mo. Ha mai ucciso?
Me. Una volta sola, nel ’62, per vendicare mio fratello Giovanni che era stato ammazzato da poco. Mi presi 26 anni. Ma questa storia non la voglio raccontare. Per non riaccendere vecchie faide famigliari ormai sopite.
Mo. A Nuoro si faceva a botte per un nonnulla. Se non reagivi passavi per un mezzo uomo. Io ero gracilino, ma presi ottime lezioni di botte e lasciai la Sardegna con un discreto stato di servizio.
Me. Io ho perduto un fratello per morte naturale e altri due me li hanno ammazzati… Noi in Sardegna non abbiamo mai avuto libertà. Fin da piccoli ci svegliavano a raffiche di mitra. I rappresentanti dello Stato bastonavano i lavoratori, arrestavano persone perbene solo per il gusto di farsi dei nemici. Anche dell’età sua…
Mo. Come “dell’età mia”?
Me. Giovani, volevo dire…
Mo. Ah ecco (risata). Ho letto da qualche parte che lei voleva sparare al presidente Saragat…
Me. Ogni tanto ci facevo un pensierino. Venne otto volte a Orgosolo per invitare la gente a collaborare per farmi catturare. La taglia era di 500 milioni, vivo o morto. Io sapevo esattamente a che ora passava l’elicottero di Saragat e a quale finestra si sarebbe affacciato. Se volevo, lo tiravo giù come un piccione.
Mo. E quando trasformò un’evasione in un viaggetto di nozze?
Me. Leggende. Fu un mancato rientro da un permesso al carcere di Vercelli, nel 1985. Mi avevano promesso otto giorni, poi me li revocarono. Decisi di farli lo stesso. Ero con una ragazza che mi aveva scritto. La chiamai per salutarla, ma a casa sua arrivarono i carabinieri e non poté rientrare. Dovetti trascinarmela appresso.
Mo. Peccato, mi piaceva proprio quella storia… Se fossi donna, m’innamorerei subito di lei e ogni notte mi farei raccontare le storie del Supramonte… Vabbè, casomai dovesse ridarsi alla macchia, un letto e un pasto caldo a casa mia li troverà sempre.
Mentre la signora Quai porta in tavola pasticcini sardi alle mandorle, Montanelli ringrazia, si alza: “Mi aspettano al Giornale, devo andare”. Mesina: “Direttore, le lascio un ricordo per questa visita”. Una penna stilografica. E Indro, imbarazzato: “Ma io non ho portato nulla! Comunque avrei preferito una sega per le sbarre…”.
(Il testo è tratto da “Indro. Il ’900 – Racconti e immagini di una vita straordinaria” di Marco Travaglio, edito da Rizzoli)