di GILIBERTO CAPANO
professore di Analisi delle politiche pubbliche
Il primo appello del nuovo semestre filtro in Medicina si è chiuso con una disfatta: le percentuali di promossi in una delle tre discipline sono state talmente basse da far ritenere che non si potranno coprire tutti i posti messi a concorso (24.000 tra università pubbliche e private). Non è un imprevisto, ma l’esito prevedibile di una riforma che, abolendo il test d’accesso, ha spostato la selezione ai primi mesi del corso, trasformando il primo semestre in uno sbarramento ancora più rigido del vecchio test nazionale.
La promessa politica era semplice: superare il numero chiuso e “liberare i sogni” degli studenti. In realtà, il numero chiuso non è stato eliminato (e non poteva essere altrimenti), ma solo rinviato di qualche mese. Per entrare a Medicina da quest’anno occorre superare congiuntamente tre esami – Fisica, Chimica e Biologia – in un arco di tempo molto ristretto.
Non è affatto chiaro perché questo meccanismo dovrebbe selezionare meglio del precedente. Il vecchio test, spesso ridicolizzato come “quiz a crocette”, era largamente basato sulle stesse discipline e su una componente di ragionamento logico del tutto comparabile a quella utilizzata in altri paesi.
Si è sostenuto che il nuovo sistema sarebbe stato meno aleatorio e più meritocratico: segui le lezioni, studi e avrai le stesse possibilità di tutti gli altri, sulla base dell’assunto, velleitario ed empiricamente sbagliato, che poche settimane di corsi universitari possano compensare differenze di preparazione accumulate in tredici anni di scuola.
Deboli argomenti
Negli ultimi anni si è consolidata una convergenza bipartisan su tre convinzioni: che troppi studenti siano “costretti” a emigrare per studiare medicina, che i test di accesso siano inaffidabili e che in Italia manchino in generale medici. Argomenti politicamente efficaci, ma deboli sul piano dei dati.
Chi va all’estero a studiare medicina lo fa perché non è stato ammesso in Italia: una scelta legittima sul piano individuale, ma non sufficiente, di per sé, a giustificare una riforma radicale dell’accesso né un aumento indiscriminato dei posti disponibili (dai 9.100 del 2021 agli attuali 24.000). L’Italia, peraltro, ha già oggi un numero di medici per abitante tra i più alti in Europa: il problema non è quantitativo, bensì distributivo, per specialità e per territorio.
Lo segnalano da tempo le associazioni professionali, la Conferenza dei rettori e numerosi studiosi: il vero collo di bottiglia non è l’ingresso al corso di laurea, ma la programmazione delle scuole di specializzazione, il loro numero, la distribuzione e le condizioni di lavoro dei giovani medici. Il rischio concreto è quello di formare a caro prezzo professionisti destinati a emigrare o a uscire dal sistema sanitario, come accadeva prima dell’introduzione del numero chiuso.
Anche l’argomento dell’inaffidabilità del test appare debole: perché mai uno strumento selettivo dovrebbe essere considerato inadeguato, se è utilizzato, spesso insieme a prove attitudinali e alla valutazione del percorso scolastico, in molti altri paesi?
Aspirazioni del ceto medio-alto
Su questi fragili presupposti è stata costruita una riforma confusa e irragionevole, che ha scaricato costi organizzativi e reputazionali sulle università e ha illuso, facendo perdere tempo prezioso, migliaia di giovani. Il risultato è già chiaro, comunque vada il secondo appello fissato per oggi e anche se il ministero trovasse una soluzione per coprire tutti i posti disponibili.
Stiamo facendo i conti con una riforma costruita per inseguire aspirazioni diffuse soprattutto nelle classi medio-alte, che sono quelle dalle quali proviene la gran parte degli aspiranti medici, più che per esigenze del paese. Il caos del primo appello non è un incidente, ma un segnale d’allarme.
L’accesso a Medicina è una questione troppo seria per essere trattata a colpi di slogan e deve basarsi su analisi dei fabbisogni, sulla programmazione delle specializzazioni e sul coraggio della politica di dire una verità semplice: non è possibile ammettere tutti. Le buone riforme reggono alla prova dei dati, non dei titoli di giornale.








