Calabria, quando Domenico Arcuri denunciava la “farsa” delle assunzioni clientelari a Sviluppo Italia

Il giornalista de Il Fatto Quotidiano Enrico Fierro, commentando l’ultima inchiesta della procura di Catanzaro sulla malapolitica calabrese aveva rievocato il familismo amorale e la genesi del malaffare del nostro territorio, vale a dire lo scandalo di “Sviluppo Italia”, che emerse nel 2007 grazie ad una coraggiosa inchiesta de La Provincia Cosentina. All’epoca, l’amministratore delegato di Sviluppo Italia era Domenico Arcuri, sì, proprio lui, il manager nominato mercoledì sera dal premier Conte supercommissario per l’emergenza coronavirus. E come possiamo leggere anche dall’articolo dell’epoca di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, Arcuri aveva ammesso e denunciato le degenerazioni familiari e clientelistiche di Sviluppo Italia Calabria.

Se oggi Edward C. Banfield fosse vivo – scriveva Fierro – e decidesse di fare una capatina in Calabria, avrebbe materiale per scrivere una ponderosa enciclopedia del familismo amorale. Perché tra Sila e Aspromonte, la famiglia è tutto. Nel mondo politico calabrese è una vera e propria impresa, e ogni membro va piazzato dovunque, anche nel più insignificante interstizio del sistema istituzionale.
Per capirci, andiamo con la memoria a qualche anno fa, quando la società pubblica Sviluppo Italia-Calabria, venne sciolta e i suoi dipendenti assorbiti da Fincalabra, la finanziaria regionale.
Un’ orgia di 33 parenti assunti. La figlia di un ex presidente di Regione. Figli e fratelli di magistrati, mogli di sindaci, di parlamentari ed ex, la spartizione fu bipartisan…“.

A questo punto, non è per niente male rileggere e ricommentare quel vecchio articolo ma purtroppo sempre attuale del buon Gian Antonio Stella.

Se «Sviluppo Italia» è «Sviluppo Parenti»
In Calabria l’agenzia conta 34 assunti tra figli, fratelli e consanguinei. Di destra e di sinistra
di Gian Antonio Stella
04 agosto 2007
Corriere della Sera
«Sviluppo Parenti»: tanto varrebbe chiamarla così, la società Sviluppo Italia. Almeno in Calabria. Tra i dipendenti di quella che doveva essere una specie di nuova Iri «ma più moderna, agile ed efficiente» per rilanciare il Sud attirando investimenti esteri, figurano infatti decine di figli, cognati, sorelle, cugini e parenti vari di politici, sindacalisti, giudici. Assunti senza concorso, per chiamata diretta. E decisi a sostenere bellicosamente d’essere stati assunti per brillanti meriti professionali.
Che la società, al di là della pomposità manageriale della «mission» dichiarata («L’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa è impegnata nella ripresa di competitività del Paese, in particolare del Mezzogiorno») sia diventata un carrozzone non è una novità.
Lo sostiene il Sole 24 Ore che ne ha chiesto la chiusura perché «sbaraccare sarebbe un segnale di svolta più forte di qualunque riforma annunciata». E lo ha ammesso perfino l’amministratore delegato Domenico Arcuri: «Ho ereditato una farsa, una società con una struttura così elefantiaca che al cospetto la General Motors si intimorisce».
Basti ricordare che, in attesa del drastico riordino annunciato, il gruppo è oggi un arcipelago di 181 società dotato di 492 amministratori, in larga parte legatissimi alla politica. Nelle sole «controllate» siedono 168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza per un totale di 339 persone.
Quanto ai dipendenti, sono 1.719, organizzati in maniera folle: il 63% negli «staff» e solo il 37% nelle «linee», da dove vengono i ricavi. Per non parlare delle gerarchie che, come ha scritto sul quotidiano economico Nicoletta Picchio riprendendo la denuncia dello stesso Arcuri, sono eccentriche: «Un dirigente governa due quadri, tutti e tre comandano 5 impiegati».
C’è poi da stupirsi se, stando ai dati Luiss Lab, Sviluppo Italia ha attratto investimenti stranieri nel triennio 2003-2005 per un totale di 297 milioni di euro contro i 760 veicolati in un solo anno, nel 2005, dalla omologa di Dublino che potremmo chiamare «Sviluppo Irlanda»?
Dentro un quadro come questo, che ha spinto i vertici a giurare su una svolta netta con una riduzione del personale degli «staff» dal 63 al 20 per cento, un taglio di 601 dipendenti e una radicale ristrutturazione delle strutture periferiche, la Calabria merita una messa a fuoco.
Se la Sicilia ha due sedi a Palermo e Catania, la Puglia una più due «incubatori» e la Campania ancora una più due «incubatori», l’assai meno popolata Calabria ne ha cinque. Quattro sedi a Cosenza, Crotone, Reggio e Vibo Valentia più un «incubatore» a Catanzaro.
FRANCESCO SAMENGO
Come mai? Tutto «merito», dicono affettuosi gli amici e critici gli avversari, di quello che è stato il patriarca calabrese della società: Francesco Samengo. La cui biografia merita qualche riga perché rappresenta plasticamente le contraddizioni della macchina pubblica. Venti anni fa venne infatti passato allo spiedo dagli ispettori mandati dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi a capire come diavolo avesse fatto la «Carical» (Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania), a lungo feudo della Democrazia cristiana e pilastro d’una politica spendacciona e clientelare, a inabissarsi in una voragine di mille miliardi di debiti. Saltò fuori di tutto.
Mutui accordati per pagare assegni protestati. Altri accordati accendendo due o tre ipoteche sulla medesima casa. Conti in rosso da incubo tollerati in base a «una buona impressione soggettiva ». Fidi da tre miliardi di lire dati per «finanziamento campagna pesche e pomodori » a un tipo che assicurava (e nessuno controllò se fosse vero) che avrebbe avuto un contributo europeo. Prestiti astronomici concessi «in attesa incasso contributo della Regione Calabria» nonostante fosse stata accertata «l’inesistenza della contabilità interna» del cliente.
Una gestione scellerata. Che sfociò in un tormentone processuale evaporato tra rinvii e assoluzioni, rinvii e prescrizioni. E in una causa civile, con richiesta di danni per 80 milioni di euro, contro vari amministratori tra i quali appunto Samengo. Allora ras della banca a Cassano Jonico. Dove una casalinga (Angelina Lione) era arrivata ad avere un mutuo dando in garanzia «costruzioni abusive» e a ottenere finanziamenti vari, secondo Bankitalia, «denunciando un patrimonio netto di 4,3 miliardi esistente solo nella sua mente». Altri, in Paesi seri, sarebbero stati spazzati via. Samengo no.
E dopo qualche anno di apnea, grazie all’appoggio dell’Udc («io non ne so niente di niente», giurò Giulio Tremonti) si ritrovò nel 2002 promosso ai vertici nazionali di Sviluppo Italia da quello stesso Stato che da lui avanzava i soldi della Carical. Bene.
SVILUPPO PARENTI
Ricostruito il quadro, il giornale La Provincia Cosentina ha sparato nei giorni scorsi a tutta pagina un’inchiesta di Gabriele Carchidi. Con un elenco di 34 «assunzioni clientelari riconducibili ai politici di destra e sinistra, uomini di legge e dirigenti ». Figli, nipoti, cognati, cugini…
Ed ecco Nerina Pujia, figlia del potente ex parlamentare della Dc Carmelo.
Carlo Caligiuri, figlio dell’ex consigliere regionale diessino Enzo.
Cecilia Rhodio, figlia dell’ex presidente regionale democristiano Guido.
Paola Santelli, sorella dell’ex sottosegretario alla Giustizia e oggi deputata azzurra JoleMarco Aloise, candidato sindaco per An a Paola nel 2003.
Luigi Camo, figlio dell’ex senatore ulivista Geppino.
Giovanna Campanaro, nipote dell’ex deputata democristiana Anna Maria e dell’ex assessore regionale Giampaolo Chiappetta.
E poi ancora Andrea Costabilenipote dell’ex assessore regionale ed ex senatore Udc Gino Trematerra.
Ed Emilio De Bartolo, assessore comunale diessino di Rende, figlio dell’ex assessore ed ex preside della Facoltà di Economia all’Unical Giuseppe.
Giada Fedele, moglie del casiniano vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Occhiuto.
Sandro Mazzuca, assunto con la moglie Fausta D’Ambrosio per la felicità dello zio acquisito Pino Gentile, consigliere regionale azzurro.
Antonio Mingrone, nipote dell’ex deputato forzista G. Battista Caligiuri.
Giovanna Perfetti, figlia dell’ex consigliere regionale buttiglioniano Pasqualino. E via così.
Qualcuno, seccato, s’è precipitato a precisare. Paola Santelli assicura che l’assunzione è precedente all’elezione della sorella Jole in Parlamento. Il senatore mussiano Nuccio Iovene che suo fratello Daniele lavorava da anni «alla Società per l’imprenditoria giovanile» assorbita da Sviluppo Italia. Altri hanno fatto spallucce. Macché scandalo, così fan tutti…
Gian Antonio Stella
04 agosto 2007
Corriere della Sera