Catanzaro. “Mi chiamo Giorgio Vignando….”

Fausto Silipo non è mai banale quando scrive i suoi post sulla sua pagina FB. Perché è una delle “memorie storiche” del Catanzaro, perché ha una visione lucida del mondo del calcio e non solo, perché è un po’ il “grillo parlante” delle vicende catanzaresi. E così ieri ha sfornato un post che ha acceso una lampadina non solo ai catanzaresi ma a tutti i calabresi e – perché no – a tutti i meridionali. 

“Ogni tanto mi prende l’angoscia. Amo gli stopper duri e i mediani di fatica. Mi chiamo Giorgio Vignando”.
Grande compagno di squadra. Stamattina ti voglio ricordare così!

E quando a Catanzaro si dice “Mi chiamo Giorgio Vignando…”, il pensiero non può che andare al Catanzaro eroico dei tempi di Fausto Silipo ma soprattutto a quanto scrisse Giorgio Vignando, ex mediano di fatica giallorosso dal 1974 al 1977 e compagno di squadra di Silipo, che calabrese non era ma che – qualche anno prima di salutare la vita terrena – ha lasciato ai posteri una serie di pensieri straordinari che il post di Silipo di ieri ci ha inevitabilmente fatto riaffiorare alla mente. Grazie Fausto per averci ricordato chi era Vignando.

MI CHIAMO GIORGIO VIGNANDO

Mi chiamo Giorgio Vignando e di mestiere ho fatto il centrocampista. Di quelli tosti, molta corsa e pochi fronzoli. Questione di sostanza, la vita come il calcio, mi ripeteva mio padre mentre si ritornava dalla campagna verso casa.

Mi chiamo Giorgio Vignando e quando sono arrivato a Catanzaro mi aspettavo fatica, sacrifici e un po’ di soldi per la vecchiaia. Ho trovato una vita, un popolo che da dieci secoli cercava un motivo per essere orgoglioso, una terra che si rialzava sulle nostre spalle.
La domenica correvo, falciavo, lanciavo, sudavo, lottavo e gli altri giorni mi perdevo per le strade, mi infilavo nei bar e nelle parole di questa gente. Io emiliano e contadino riconoscevo le rughe, assaporavo il vino caldo e diventavo un tifoso. Ma lo sai, mi ripetevano tutti, lo sai che significa per noi vincere con l’Inter, con il Milan, con la Juve? Lo studente mi diceva “… Vignando, quel pallone che parte dai tuoi piedi è un portatore volante di felicità collettiva…”, il politico comunista mi prendeva in disparte e mi spiegava “Voi non siete una squadra siete una speranza schierata su un prato verde”, il meccanico mi abbracciava e mi raccontava di suo fratello che lavorava a Mirafiori e ai cancelli agitava la sciarpa giallorossa e per dieci minuti non si sentiva né emigrato, né sfruttato, né incazzato, i vecchi mi svuotavano il bicchiere e controllavano la mia forma, mentre una città intera ripeteva: ne valeva la pena, aspettare tanto.

Cha Cha Cha, capoluogo e serie A, come un ritornello che scardina il futuro, lo sentivi l’orgoglio che arrivava a zaffate, ne avvertivi l’odore che riempiva le strade come quando mio padre mi raccontava quella volta che non avevano abbassato la testa davanti al padrone, quella volta che si erano ripresi la dignità e l’ignoranza. Siamo noi a far ricchi questa terra, siamo noi la loro abbondanza, me lo sussurravo nella pancia dello stadio quando già percepivo il fremito della curva, quando l’adrenalina mi schizzava fino alla testa mentre infilavo quella magliettina stretta stretta a righine giallo e rosse.

Non ho mai capito il loro dialetto ma ho riconosciuto nei loro occhi quelli di mio padre. Lo stesso modo di guardare un campo e di scrutare nell’erba il tempo che viene. Qui ho smesso di fare un mestiere e sono tornato ad essere un uomo. È vero, non vincevamo soltanto: li vendicavamo. Facevamo la rivoluzione in calzoncini rossi, con i parastinchi e con un numero sulle spalle, è vero ci divertivamo un sacco.

Il calcio non lo vedo più, mi fa tristezza, e in Calabria ci torno raramente, mi prende un’angoscia che non mi passa più. Non è per la sporcizia o per la povertà che resiste, non è per gli abusi edilizi o per i piccoli soprusi, non è nemmeno per la mafia, è che non vedo più negli occhi la dignità. Come se la gente si fosse abbandonata ad un destino di quarta serie.
Il mio nome è Giorgio Vignando, amo gli stopper rudi e i mediani di fatica, le squadre di provincia e i popoli oppressi, credo che le vittorie della mia squadra siano state impastate di umiltà, abnegazione e volontà, resisto sui gradini degli stadi di periferia e spero che questo presente prima o poi passerà.