C’era una volta a fera i San Giuseppe

Non c’è più. E’ morta. La fiera di San Giuseppe resta nei nostri cuori e lascia il vuoto. Hai un deja vu quando dal Comune svolti e vai verso il ponte Mario Martire. La solita bancarella di mostaccioli c’è, qualche altro venditore pure, ma arrivati da Zorro il nulla. E la morsa della perdita ti avvolge. Allora torni indietro. All’angolo di piazza dei Bruzi e contempli.
A scuola avevi imparato che a destra si rappresentava il futuro e a sinistra il passato. Ma Cosenza non è un bel quadretto, è una città strana, diceva un amico, e la prospettiva sovente è invertita.
Così, se svolti a destra il passato è cancellato e a sinistra trovi il presente che per essere futuro andrebbe decontestualizzato, anzi andrebbe rinominato.
Già, perchè la “cosa” attuale dovrebbe rispondere ad appellativi diversi. Si potrebbe togliere il santo e lasciare fiera. La fiera di Cosenza. Potrebbe starci.
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A fera no, non va bene. Troppo celebrativo. ll grande mercato. Oppure l’expo cosentino. Nell’ottica moderna quest’ultima è perfetta. Perché, si sa, il percorso da seguire è ergersi al livello delle società avanzate e proposte come modello. E mica noi cosentini ce lo facciamo dire, noi siamo avanti, siamo la copia delle grandi città prima ancora di sapere chi siamo.
Avanguardie. Evabbene. Non facciamo i retrogradi. La nuova “cosa” (fiera senza san Giuseppe, mercato, esposizione) che è aperta fino a martedì. forse mercoledì, in sé non è male. Ha il suo garbo. E’ grande, oltre ad essere lunga. Ha i suoi stand aggraziati, le sue vie di fuga. Entri ed esci con facilità dalla nevrosi della folla divoratrice. Il traffico trova sfogo sulle parallele. C’è pure lo spazio per i tavolini, panini, ciambelle, crepes, birre.
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Insomma, tra l’America e Milano c’è Cosenza o Cusenza. Ecco perché piace. Funzionale, spaziosa, grande. Così è la “cosa” e la gente va. Ma il lutto è lutto. E se pur biblicamente quello per l’amato dura tre anni, il nostro non è per niente rielaborato. E se uno prova dolore è difficile sollevarsi.
Sì, perché a noi che amavamo quella vecchia, quella storica, quella di sempre la ferita non si rimargina. La nostra coscienza storica ribolle. Il cinismo dei moderni può mettere in discussione tutti i capisaldi della tradizione, può trovare tutti i difetti che vuole nel passato, può sostenere quanto vuole il suo allontanamento dalle barbarie, che a noi, “brave heart d’ a fera i San Giuseppe” non ce ne può fregare di meno. A noi manca la vecchia. A nua ni manca u mungia mungia, ni mancanu i puzze ca ti stonavano, una specie di gusto perverso.
Ni mancava l’aria, ni facia male a cervicale, l’umidità du jume ni trapanava, eppure eravamo felici. Ni manca piazza Valdesi, u Spiritu Santu, a Massa. L’affacciata du u ponte i San Franciscu. Ni manca a Gil, i poste, a villa Vecchia. Ni manca u burdellu chinu chinu. Ni manca a FERA! Nua vulimu jì ara fera, ara fera vera! Non ci stanchiamo di ripeterlo. Noi la evocheremo ora e sempre.
Noi il centro storico lo abbiamo conosciuto così, noi eravamo i barbari che lo invadevamo. Noi, instancabili predatori di mustazzoli. Già, i mustazzoli tuasti chi mancu. A cavalluccio, a cuore, a panaricchiu, sono gli unici, gli unici superstiti che resistono da millenni. Mentre a fera i San Giuseppe non c’è più.
Non è neppure un fantasma e per pudore non aleggia su viale Parco. Ma “fricatinni”, tanto tra non molto tempo la modernità sarà vecchia, su Viale Parco arriverà la metropolitana leggera (magari u juarnu du cunnu o u juarnu i maruzzu e di franz misi assiami ccu contorno i robertino capu i liuni e madame fifì e puru i cinghiali…) e spazzerà via la “cosa”. Chissà magari allora, in contrapposizione…. Chissà, magari prima ritornerà il tempo delle antiche rinascite. Chissà, magari resusciterà a fera mia.
Laura De Franco