Con Alessandro è andata via una parte di noi (di Rosamaria Aquino)

AUTOCENSURA ELEVATA A SISTEMA, SALTA IL BANCO

di Rosamaria Aquino – tratto da “Sacro Fuoco”

L’altra sera era mezzanotte. Non ricevo mai messaggi a mezzanotte da quando non lavoro più nei giornali, per cui quando si è illuminato il display mi sono avvicinata al telefonino con l’aria un po’ stranita. Era un politico abbastanza noto nel panorama cosentino. Scriveva a me, ormai fuori dal giro da oltre un anno, e lo faceva a mezzanotte. Doveva essere qualcosa di serio, mi sono detta.

D’un tratto la sorpresa: “Rosa, ma conosci chi è questa stronza che mi scrive contro da giorni? Che fa davvero nella vita oltre a rompere le palle a me?”. Gelo. Proprio a me viene a chiedere come difendersi da una collega… Ma pensa tu. Provo a ricostruire. Faccio un giro su Google e trovo la notizia: il mittente se la stava vedendo da qualche giorno con cronache non tanto tenere sulla sua attività istituzionale, compresi i suoi lauti compensi.

Un giornalista, se scopre una notizia, ne scrive. Punto. Niente di personale e soprattutto molto semplice. Avrei dovuto rispondere questo e rimettermi a dormire. Ma perché finirla qui? Il politico faceva finta di non ricordarsi di una vicenda di pressioni che riguardava proprio me e di cui sapeva ogni dettaglio, essendone stato a suo modo silenzioso complice, così gli ho rinfrescato la memoria…

Ho scritto che mi dispiaceva, davvero, ma quella giornalista non la conoscevo. Poi continuavo dicendo che comunque, se avesse avuto necessità di metterle un freno, poteva benissimo chiedere come si fa ai suoi amici interni al Comune, gli stessi che telefonavano giornalmente al caposervizio, al direttore e all’editore del mio giornale per lamentarsi dei miei pezzi e provare a farmi “dare una calmata”.

Per i politici tu non scrivi nulla senza un motivo. Ragionano così. Non esiste che se conosci un fatto lo scrivi, come mestiere vuole. Per loro devi avere sempre una motivazione recondita, nel peggiore dei casi i soldi e nella migliore un “cattivo suggeritore”.

Perciò oggi, mentre una tra le tante storie di libertà di stampa negata in Calabria diventa improvvisamente un caso nazionale mi viene da ridere.

Perché per anni la censura più bieca ha fatto carne da macello di tutti noi giornalisti, distruggendo carriere, demolendo persone, disintegrando ideali di libertà e alimentando un sistema consociativo ben oliato in cui la politica ordina, il giornale esegue e il piacere viene reso favorendo le attività collaterali dell’editore (commercio, edilizia, sanità privata innanzitutto). E’ così, lo è sempre stato. Lo abbiamo denunciato pubblicamente, lo abbiamo testimoniato nelle cause di lavoro, lo abbiamo messo al centro di ogni tavolo di trattativa serrata con l’editore, anche a costo del nostro stesso posto di lavoro. Oggi improvvisamente se ne accorgono tutti.

Ora che a denunciarlo ai massimi livelli, anche penalmente, è stato un direttore. Non un cronista d’assalto come si potrebbe pensare, ma un esperto di famiglie reali. Abbiamo dovuto aspettare una firma da rotocalco per far conoscere l’arroganza della politica, la passività dell’editoria alle pressioni, il ruolo dei giornalisti schiacciati nella morsa di poteri a volte amici, a volte avversi. Cos’è, agli altri è mancato il coraggio? L’opinione pubblica sul punto si divide tra chi apprezza il piglio del denunciante e chi vede dietro questa diatriba nient’altro che una guerra tra caste. Propendo per la seconda ipotesi, conoscendo cose e persone.

Resta comunque un fatto: una cosa che sapevano tutti, ma che non è mai deflagrata con questa potenza, ora la sanno anche le pietre. Cosa è cambiato? Secondo me è andato in corto un sistema che sembrava collaudato, ma tanto collaudato non era.

Si tratta di qualcosa di più impercettibile, ma non meno devastante per la tenuta della libertà di stampa nella nostra regione. Si tratta, credo, dell’abitudine a quelle ingerenze, all’impossibilità di farsi forte con l’editore visto il rapporto di lavoratore subordinato, alla normalità del sistema che si impone come tante altre consuetudini malate di questa terra inquadrabili nel comodo “funziona così”. Ora che non ci sono più i soldi, che la politica non può garantirli, che gli imprenditori sono in affanno e che i giornalisti sono alla fame, ecco che qualcosa non torna.

Finora non si era mai posto il problema. Il rapporto di interscambio era garantito e con esso gli equilibri politico-editoriali. Infondo, diciamocelo, perché i giornali dovrebbero essere diversi dalle file saltate alle Aziende sanitarie, dai piaceri in Comune, dal concorso passato dai figli di? Perché dovrebbero farlo, a qualsiasi costo. E invece le intromissioni nella linea editoriale diventano parte della giornata lavorativa, esattamente come la pausa caffé e la telefonata alla rotativa per dare l’ok alla stampa.

Se accetti tutto questo, anche con l’amaro in bocca, a un certo punto ti scivola addosso persino il fiato sul collo dell’editore mentre sfila dietro i computer per controllare le notizie gradite ai suoi amici. I politici non devono nemmeno disturbarsi a telefonare per far passare la “killerata” contro il compagno di gruppo che inizia a diventare scomodo. La pagina che gli andrà bene ce l’hai già in mente tu. Sai fino a dove puoi spingere e cosa invece potrebbe disturbare. E ti fermi.

La censura è self made, ce la facciamo da soli.

Ogni volta che non presentiamo una notizia, perché sappiamo quanto possa stridere con la linea del giornale. Quando non indaghiamo su un fatto perché siamo certi che scavando troveremo un nome protetto da mille trame sottili, di quelle che solo a toccarle prendi la scossa.

Succede se tolleriamo che vengano pubblicate solo le notizie che fanno comodo al direttore e all’editore. Mentre abbassiamo la testa se un nostro collega che ha scritto qualcosa di giusto, ma di profondamente scomodo, viene trasferito dalla sera alla mattina dalla politica ad altro settore dove non possa far danni.

La censura fatta in casa è quando non ci lasciamo sconvolgere più da proposte di contratto a termine che sostituiscono un buon tempo indeterminato, con la motivazione che ormai “costiamo troppo”. Ci tagliamo le gambe da soli quando non ci ribelliamo più per le ingiustizie che accadono in redazione, se chiudiamo gli occhi e ci giriamo dall’altra parte. Se ci convinciamo che chi si ribella è “il diverso”, quello che “fa casino”, il “guastafeste”. Se prendiamo buchi a orologeria, se releghiamo una notizia grossa a un trafiletto… Così nessuno domani si arrabbierà.

E’ una brutta bestia, questa del tarparsi le ali da soli. Ed è pratica molto in voga tra i puristi del quieto vivere, tra gli impiegati di redazione, tra gli imboscati nelle pagine del copia e incolla, gente che ha completamente dimenticato cosa significhi fare questo mestiere.

Oggi però, che gli stipendi sono ai minimi storici, che i giornali sono tutti in regime di solidarietà e molti sull’orlo del fallimento, che, in pratica, non si ha più molto da perdere, questa coltre vischiosa di silenzi e compiacenze improvvisamente si sgretola. E salta il banco.

Quando Alessandro si è sparato è stato uno shock per tutti. Non era morto solo un collega, per qualcuno un amico. Era morto qualcosa di noi, di quello che eravamo stati, di quello che avevamo tentato di rimuovere impiegandoci in altri giornali, o cambiando del tutto lavoro. Era definitivamente persa una parte di storia della nostra vita, era scomparsa volontariamente e lo aveva fatto nel modo più atroce.

Per questo, e non a caso, al netto dei sensi di colpa, molti dei “coccodrilli” che uscirono in quei giorni sembravano più racconti personali che non un ricordo di chi aveva deciso di lasciare questa vita sparandosi un colpo a bruciapelo.

Calabria Ora per molti di noi era stata la prima esperienza, per altri il giornale dove poter finalmente “scrivere quello che gli altri non scrivono”, come recitava lo slogan della promozione. Per qualche mese in effetti quello “giallo” non fu un giornale, fu più un movimento, un’agorà che insegnava finalmente a una regione ad aprirsi, guardarsi in faccia e parlarsi. C’era dentro il meglio di noi, dallo sport, alla politica, le rubriche, le inchieste, le pagine culturali. Tutto faceva scuola.

Certo i politici, sulle prime accoglienti come chi infondo non ha paura del “cane da guardia”, ben presto iniziarono a indispettirsi e insieme a loro anche i vari poteri collaterali. Gli editori staccavano il telefono, tentavano di raffreddare il clima, ma sotto sotto godevano perché il giornale stava diventando qualcosa di più di un foglio che scriveva la verità: stava diventando moneta battente, strumento di pressione, merce di scambio.

Ce ne accorgemmo e a nostre spese poco dopo, che quell’idillio non poteva durare. Il giornale si allineò ben presto a tutti gli altri perdendo progressivamente il suo appeal. Con le continue pressioni dell’editore e le intromissioni della politica sempre più pressanti, per molti andarsene e abbandonare il posto di lavoro (all’epoca la crisi si intravedeva soltanto) fu un fatto quasi naturale. Chi scelse la via traumatica, chi salutando tutti e chiudendo piano la porta, ce ne andammo in molti, lasciando dentro amici e compagni.

Non era una cosa così strana dimettersi, perché ormai restare o no era questione di sanità mentale. Era diventato parecchio difficile reagire a una quotidianità nella quale frasi dell’editore come “Domani non ti permettere a scrivere il cognome dell’imputato nella locandina perché è il mio dentista”, nonostante il processo prendesse il nome dell’imputato, erano diventate la norma. Così non puoi fare il giornalista, sei un’altra cosa.

E per non impazzire ti dici che “è normale”, che “ovunque funziona così”, che “almeno qui pagano e negli altri posti no”. Che ribellarsi significa cambiare e cambiare non piace a nessuno.

Quando i carabinieri che hanno indagato per violenza privata sull’ex editore nei confronti di Alessandro, ci hanno ringraziati per le nostre testimonianze, aggiungendo un po’ delusi che alcuni colleghi interpellati si erano mostrati reticenti, non mi sono stupita. Un po’ disgustata forse, ma non stupita. Perché se riesci a stare in un ambiente di lavoro del genere o ti ribelli, o ti adegui facendoti lo stomaco a pezzetti, o quelle pratiche alla fine te le fai andare bene. Non c’è una quarta via. Così, pur restando di sasso, mi sono fatta una ragione di quanti, nella narrazione del suicidio di Alessandro, hanno spostato subito l’attenzione sugli aspetti privati della vicenda, nel tentativo affannoso di restituirgli una dimensione assolutamente personale e quindi insindacabile.

Ma di che privato stiamo parlando, tanto per essere chiari?

Se le giornate di molti di noi, di quelli che lavoravano davvero, somigliavano a vorticose spirali che iniziavano la mattina e terminavano la notte, anche oltre l’orario di chiusura. Tornati a galla, a un certo punto, ci siamo voltati indietro e abbiamo trovato le mogli invecchiate, i figli cresciuti, il tempo perduto e irrecuperabile.

E, ancora, stando al privato: che qualità della vita abbiamo offerto alle nostre famiglie, ai nostri compagni, se per la gran parte del nostro tempo abbiamo maledetto dove eravamo, quello che facevamo, le scelte che non avevamo fatto, gli amici che ci hanno abbandonati perché stanchi di essere vessati, quelli che hanno preferito dire che eravamo noi a remare contro?

Se ci siamo pentiti delle cose che abbiamo scritto, di quelle che non ci hanno fatto scrivere. Se abbiamo a un certo punto dovuto abdicare ai principi di un mestiere che amiamo per non essere considerati sempre l’ultimo giapponese che non si arrende alla fine della guerra. Se siamo stati costretti a scrivere su dei diari personali la cronaca collaterale di quello che succedeva dentro il nostro posto di lavoro, perché lo abbiamo trovato ancora più aberrante di quello che accadeva fuori.

Niente da fare: il suicidio di Alessandro è un fatto privato. E chi dice il contrario “strumentalizza” una morte per screditare un giornale. Una roba da veri sciacalli, non c’è che dire. Noi che la pensiamo così, il prete che nell’omelia parla di precariato esistenziale, la Procura che si “vuole rivalere sull’editore” (come se non avesse già abbastanza guai), i carabinieri che “si accaniscono” nelle indagini perché erano amici di Alessandro il cronista di nera.

Troppo strumentali questi che si ostinano cocciutamente a indicare anche gli aspetti di insoddisfazione che riguardavano più che la sfera lavorativa di Alessandro Bozzo, la sua stessa identità di persona libera e pensante, la libertà negata di essere un giornalista.

E quanta abitudine, quanta autocensura, vediamo invece noi da quest’altra parte. In tutti quelli che si accomodano nelle verità più immediate, rassicuranti, che permettono di stare a posto con la coscienza, senza doversi mettere in discussione.