Cosenza, 1° ottobre 2024. Omicidio Bergamini, il giorno più lungo per la Città dei Bruzi e il suo porto delle nebbie

Il processo per il barbaro omicidio di Denis Bergamini rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia del Tribunale di Cosenza, che ormai ogni cosentino e anche da tempo ha ribattezzato porto delle nebbie. Stasera, con la condanna di Isabella Internò a 16 anni di reclusione, il palazzaccio è stato finalmente espugnato. Decenni di vergogne giudiziarie e connivenze inconfessabili tra la magistratura e l’avvocatura cosentine sono state finalmente smascherate. Tutti sanno che l’omicidio Bergamini, malgrado sia stato realizzato a Roseto Capo Spulico, è un delitto cosentino a tutti gli effetti, nascosto principalmente sotto il tappeto nauseabondo della procura di Cosenza. E ovviamente non è certo un caso se l’avvocato che difende la famiglia Bergamini viene da Ferrara.

L’omicidio volontario pluriaggravato e premeditato di Denis Bergamini è una delle pagine più nere della città di Cosenza. L’hanno scritta in tanti, non solo quelli che l’hanno ucciso. L’hanno scritta tutti quelli che hanno contribuito a nascondere la verità per vent’anni: magistrati, poliziotti, carabinieri, dirigenti e calciatori del Cosenza Calcio, giornalisti (noi compresi ovviamente), uomini d’onore…

Tutti sapevano o erano in condizione di sapere ma nessuno ha fatto niente di concreto per aiutare chi quella verità la cercava e la pretendeva. La parola d’ordine era: prudenza. Una prudenza a dir poco sospetta in una città nella quale invece custodire un segreto è operazione impossibile.

All’alba del ventennale della morte di Denis, noi cosentini abbiamo deciso di rompere la consegna del silenzio. Era impossibile che non sapessimo com’era andata. Più che non saperlo, ci eravamo imposti di non volerlo sapere: avevamo messo la testa sotto la sabbia come gli struzzi.

Non è servito molto tempo per arrivare alla verità ma ne è servito ancora tanto altro per fare in modo che uscisse fuori. Tra il calcio, i successi del Cosenza, la doppia faccia della nostra città, i personaggi, i protagonisti. E soprattutto la dinamica dell’imboscata tesa a Denis Bergamini con tutte le connivenze e le complicità rese possibili da pezzi deviati dello stato per oltre vent’anni. Nel calcolo mancano gli altri 15 anni, che abbiamo vissuto con la consapevolezza di quanto era realmente successo ma che solo adesso hanno consentito di arrivare a un sacrosanto processo e all’attesissima sentenza.

L’omicidio di Denis Bergamini è anche un modo per riscrivere la storia recente di questa città, che non può essere quella che ci hanno propinato i pentiti e la Procura della Repubblica di Cosenza attraverso le loro “voci ufficiali”. Questo, purtroppo, è solo un piccolo assaggio di quello che poteva accadere a Cosenza e rimanere impunito quasi con leggerezza. Ma, tra tutti i “segreti” di questa città, quello relativo alla morte di Denis Bergamini era uno dei più miserabili e vergognosi.

Di solito, l’omertà viene abbinata alla mafia o, più in generale, alla malavita. Qui invece l’omertà (rappresentata con i caratteri della polizia ed è davvero il minimo che si potesse fare!) va doverosamente accoppiata a quei pezzi deviati dello stato (magistrati e forze dell’ordine soprattutto) che hanno concepito e insabbiato consapevolmente l’omicidio volontario di un ragazzo al quale tutti volevano bene, uno degli idoli della città di  Cosenza.

La malavita sapeva, ha assicurato la copertura logistica ma non ha potuto far niente per rivelare quanto era accaduto. Avete mai sentito parlare, prima che qualcuno (bontà sua) si accorgesse della trattativa tra stato e mafia, di un pentito di malavita che accusa un poliziotto, un carabiniere o un magistrato? O di giornalisti che provano a sputtanare tutto il marcio che c’è dentro la borghesia di una città?

Nella nostra democrazia malata, dunque, è potuto accadere che per vent’anni un omicidio efferato come quello di Denis Bergamini sia stato oggetto di assurdi depistaggi e di indagini semplicemente ridicole. Perché è vero che lo stato non può condannare se stesso senza nessuno che provi a dire la verità ma a tutto c’è un limite. Un limite che, nel caso Bergamini, è stato oltrepassato troppe volte e ha goduto della vergognosa complicità di giornalisti asserviti alle logiche perverse di uomini senza dignità.

Silvio Sesti

Qui a Cosenza, ormai dall’alba degli anni Ottanta, funziona e prospera un “sistema” che ha prodotto vergogne su vergogne. A partire – almeno fin da quando ne abbiamo memoria – dall’irresistibile ascesa di Oreste Nicastro, il procuratore capo che ha reso visibile a tutti con anni di anticipo la trattativa “mafia-stato” con il clan di Franco Muto nel ristorante-albergo-night “La Perla” di Cetraro di proprietà del fratello Sandro. Diventano leggendarie le bicchierate di Nicastro e dei suoi giudici con i boss cosentini e del Tirreno. Ed è proprio sotto l’egida di Nicastro che si consumano due dei cold case più agghiaccianti della città di Cosenza: gli omicidi dell’avvocato penalista Silvio Sesti (inviso alla lobby dominante dell’avvocatura cosentina) e del direttore del carcere Sergio Cosmai.

Di entrambi i delitti non saranno mai perseguiti i veri colpevoli e di fatto sarà proprio sulla pelle di questi due uomini con la schiena dritta che Nicastro e i suoi prodi riusciranno a mettere fine alla guerra di mafia tra i due clan rivali di Cosenza. Oreste Nicastro, naturalmente, al contrario del suo attivismo per fermare la guerra di mafia, era del tutto immobile su bubboni grandissimi che avrebbero dimostrato a tutti già in tempi non sospetti la corruzione della classe politica come la Carical e l’Esac. La Dc di Riccardo Misasi aveva messo su un sistema geometrico, a prova di ispezione ministeriale e a poco valevano le denunce, anche clamorose, di Giacomo Mancini. Che poi sarebbe finito a metà degli anni 90 nel mirino della lobby del porto delle nebbie.

Il suo braccio destro Francesco Mollace, magistrato chiacchierato e discusso, allora alle prime armi, prima fa rumore con il blitz del 1986 scaturito dalle dichiarazioni del pentito De Rose. Ma poi fa di tutto per ridimensionare i fatti. Per lui Cosenza è stata una grande palestra.

Alfredo Serafini

Alfredo Serafini, che subentra a Nicastro nel 1987 ma è già da tempo in procura dopo gli inizi a Castrovillari, trova un sistema di potere già collaudato e si adegua alla bisogna. E’ molto meno spregiudicato del collega e di lui si trova traccia specifica nei fascicoli del palazzaccio solo per quella vicenda del lingotto d’oro, ricevuto dalla mala, come risarcimento per un furto subito.

Un atteggiamento di deferenza che si deve a chi evidentemente tiene tutta la polvere sotto il tappeto. E’ lui però insieme al braccio destro Mario Spagnuolo (sostituto anziano e per molti versi vero e proprio procuratore capo, esattamente come adesso. Altro che Gattopardo!) a gestire le grottesche vicende del pentimento di Franco Pino dopo l’operazione Garden della Dda, che serve a nascondere tutte le magagne di una procura corrotta fino al midollo.

Un pentimento seguito da decine di altri “canterini” abilmente reclutati da quella massa di corrotti degli avvocati penalisti che contano a Cosenza. E un processo finito in barzelletta, per il quale hanno pagato soltanto quelli che non si sono venduti a Spagnuolo e a Serafini. Non solo le connivenze scontate con i colletti bianchi e i politici ma segreti di stato messi su ad arte per non scoprire la verità su omicidi gravissimi come quelli di Roberta Lanzino e Denis Bergamini.

Ma non solo. Nel corso degli anni Novanta una ristretta cerchia di magistrati e servitori infedeli dello stato ha perseguitato senza pudore Fabio Gallo, un ballerino-coreografo “colpevole” di aver messo in ombra le attività di un parente dell’allora procuratore Serafini. All’alba degli anni Duemila un teorema dei carabinieri del Ros rifiutato dalle procure di tutta Italia ha trovato accoglienza solo a Cosenza per quella che è rimasta agli annali come l’operazione No Global, risolta in una clamorosa bolla di sapone ma che è servita per fermare sul nascere un movimento politico che avrebbe creato problemi seri ai “manovratori”. E che dire del vergognoso arresto di Padre Fedele, orchestrato dalla politica corrotta in combutta con la diocesi altrettanto corrotta, che è servito per mettere le mani sulla sua “Oasi Francescana” che aveva scompaginato i piani dei soliti “manovratori”? Fino ad arrivare all’ultimo vergognoso caso dell’omicidio di Ilaria Mirabelli fatto passare per un incidente stradale, che forse siamo ancora in tempo a smascherare.

Oggi che finalmente è stato dato il via libera ed è arrivata la sentenza del processo per l’omicidio volontario di Denis Bergamini, raccontare anno per anno la storia del porto delle nebbie vuole rappresentare il riscatto di quella parte di Cosenza che ha avuto il coraggio di dire basta e di puntare il dito contro chi ancora oggi crede di poter fare il bello e il cattivo tempo sulla pelle degli altri. L’altra Cosenza, quella che insabbia e protegge i potenti, ne esce a pezzi. E siamo ancora all’inizio!