Cosenza, diritti delle donne calpestati in ospedale: non camminerai mai da sola

Non camminerai mai da sola

di Zuzanna Krasnopolska, giornalista polacca

«Il micidiale appetito da apocalisse si accompagna alla paranoia, non mi fido di nessuno e scorgo in chiunque un nemico da cui proteggermi. Ma questa volta il mio istinto non sta esagerando: non sono mai stata così vulnerabile e così sola, stretta nel meccanismo ospedaliero per cui non sono più Ilaria Giannini, trentanovenne che ci ha messo due anni e mezzo a rimanere incinta e non può portare gli orecchini perché vedere il buco nelle orecchie la fa svenire, ma solo l’ennesima primipara lamentosa, esagerata, drammaticamente impreparata»[1]

Qualche giorno fa mi è capitato sotto occhi un post su Facebook con la citazione di questo racconto autobiografico della giornalista Ilaria Giannini. Una sensazione paralizzante di solitudine, di essere sola in mezzo a un nulla nemico, e non soltanto nei corridoi ospedalieri, ma anche negli altri: al lavoro, per strada di sera, a volte addirittura a casa propria. Accade alle donne a tutte le latitudini con una pietrificante regolarità.

Sono polacca, e una volta la Polonia veniva associata al termine Solidarność. Il primo portavoce del movimento Karol Modzelewski, insieme a Jacek Kuroń, forse i due più grandi attivisti e politici polacchi, hanno trasmesso a tante generazioni, fra cui anche la mia, l’importanza del senso civico e del senso della comunità. La creazione dell’Ogólnopolski Strajk Kobiet [Sciopero Nazionale delle Donne], organizzatore delle manifestazioni contro il divieto d’aborto dal 2016, ha dato vita a una rete di mutuo soccorso femminile: nonostante le riforme introdotte dal partito al governo, le donne quando hanno un problema – dal consiglio di un bravo ginecologo alla necessità della pillola del giorno dopo (illegale, nei fatti, in Polonia) – sanno a chi, come e dove rivolgersi. Basta un fischio, un giro su Facebook, un colpo di telefono. I comportamenti scorretti del personale ospedaliero vengono denunciati (frutto del lavoro quasi trentennale della fondazione “Rodzić po ludzku”, “Partorire in modo umano”). Se una attivista viene arrestata, sotto il commissariato arriviamo in tante. Il motto delle proteste è “Non camminerai mai da sola” non solo in teoria. Se venite in Polonia, potrete notare che su molte finestre, su molte porte degli appartamenti ci sono i simboli della lotta femminile: un fulmine rosso o un profilo nero di una donna. Ci diamo una mano a vicenda, nei limiti del possibile.

E ho realizzato che qui, sulla costa tirrenica cosentina dove abito ormai da 11 anni, non è così. Da poco l’ultimo medico non obiettore di coscienza si è dimesso dall’ospedale di Cosenza, dunque abortire non è più un diritto (il servizio di IVG è stato ripristinato per soli 6 mesi grazie all’intervento dell’associazione FEM.IN Cosentine in lotta). Basta pensare al racconto terrificante di Jessica Cosenza, pubblicato su Iacchite’ il 25 luglio, che racconta l’agonia dell’autrice con le perdite, in piedi da ore, senza nessun tipo di sostegno né prima né dopo l’aborto spontaneo (https://www.iacchite.blog/cosenza-lospedale-come-un-mattatoio-per-esseri-umani-4-ore-in-piedi-al-terzo-mese-di-gravidanza/).

Purtroppo non parliamo solo di libertà di scelta: anche partorire è un diritto ormai mutilato. Una donna sulla costa tirrenica, quando è prossima al parto, deve andare nell’entroterra: Cosenza, Castrovillari, Catanzaro o Lagonegro, dunque o scavalcare la montagna, o affrontare il viaggio di 100 km, oppure arrivare in Basilicata. I reparti di maternità di Paola, Belvedere Marittimo non ci sono più, quello di Cetraro è stato sospeso nel 2019. Ci sono gli ambulatori, ma durante i fine settimana non funzionano. Inutile dire che delle doule in Calabria nemmeno l’ombra. Ultimamente tre delle ragazze che conosco hanno partorito a Cosenza, dopo circa 40 km di strada tortuosa di montagna. Una ha aspettato il letto per 12 ore, l’altra 4 ore in piedi prima di essere visitata con la minaccia d’aborto spontaneo, la terza ha aspettato per 7 ore il tracciato in mezzo a una folla delle donne incinte straniere che venivano respinte alla fine della fila. Le amiche degli amici, manco a dirlo, passano con la scusa dell’urgenza.

E sono nate delle bambine sane e bellissime, alla faccia della bruttezza del posto dove i medici si dimostrano spesso crudi e disumani, trattano le loro mamme come petulanti incomode e le lasciano senza pranzo: in un caso, prima di nascere non si sentivano più al tracciato. Non finisce qui. Nell’ospedale di Cosenza da almeno (!) un mese manca l’acqua calda. E nessuno dice nulla, le mamme si lavano le ferite con l’acqua fredda che esce poca e a spruzzo, prima rigorosamente marrone. Per lavare neonati c’è un sistema di bottoni per miscelare l’acqua, che bisogna far scorrere a lungo, ma tanto, come si è fatta scappare una delle infermiere, l’acqua calda se arriva, arriva solo di mattina. Le ostetriche, cui aggressività calpesta la dignità umana, lavano i neonati con l’acqua fredda, anche se ci vorrebbe veramente poco a mettere un po’ d’acqua a bollire, o almeno metterla in un recipiente al sole. E adesso siamo in estate. L’impianto sarà a posto quando arriverà l’inverno? O la polmonite, nel migliore dei casi, toccherà a tutti i neonati della costa tirrenica cosentina?

Basta con questa silenziosa accettazione. È la stessa per la quale le persone chiamano l’ex consigliere regionale per chiedergli di intercedere presso quell’ospedale, per sapere novità sui parenti ricoverati. Poi, sulla bacheca del politico, lo descrivono letteralmente come “un santo”, non rendendosi conto di diventare in tal modo uno degli ingranaggi del sistema così malato. Chiedetelo a chi non aveva il suo numero di telefono, com’è andata. La soluzione proposta dal presidente della regione Occhiuto, ovvero quella di assumere i medici cubani, è soltanto una ciliegina su una torta commissariata e andata a male tanto tempo fa. Questa silenziosa accettazione rappresenta il marasma nel quale molti, anche i più giovani e promettenti politici della costa, stanno iniziando a sprofondare.

Allora inizio a gridare io. Anche se abbiamo idee politiche diverse, ci unisce la voglia di tendere una mano verso chi fa figli, verso chi mostra in tal modo il coraggio e la speranza nei confronti del futuro; verso le donne il cui corpo viene sempre strumentalizzato per convenire alle necessità politiche del momento, senza rispettare nessun loro diritto. Parliamone, uniamoci, combattiamo questa bolla di omertà! Devono essere le donne della costa tirrenica le prime a denunciare questa malasanità, facciamolo, non ci vuole tanto per capire che altrimenti la situazione non cambierà mai, che andrà sempre avanti così, che le donne in Calabria continueranno a camminare da sole. Potreste dire che per me è facile parlare, perché non sono stata nei loro panni. Potreste dire che non posso insegnarvi nulla, poiché provengo da un paese dove la democrazia è calpestata ogni giorno dal governo in carica. Potreste dire che provengo da una grande città, dunque vivo nell’anonimato che qui non esiste. Forse avete ragione. Ma fatemi gridare contro questo marasma, magari le altre si uniranno e un giorno, anche sul Tirreno, cammineremo tutte insieme.  

[1] I. Giannini, Un parto, “L’Indiscreto” del 12 agosto 2022, https://www.indiscreto.org/un-parto/?fbclid=IwAR1KCrwoTiu3k-rMzQ9ZxobISE9uWAAXp4QnqkTDfxsIVFspaVPc3Rveqag&fs=e&s=cl