Cosenza, Franco Pino rievoca la storica e solida alleanza con il clan Piromalli

Moderna, capace d’infiltrarsi nell’imprenditoria, nella politica, negli enti pubblici: la ’ndrangheta cosentina è oggi il “mostro” descritto dall’operazione antimafia di Catanzaro perché ha mutuato esperienze da altre potenti organizzazioni calabresi.
A svelare l’evoluzione, i contatti, le alleanze ai magistrati della Dda di Catanzaro, è stato il padrino Franco Pino. Lucido, astuto e spietato; Pino è stato per anni la mente della mafia cosentina. «Noi eravamo criminali» racconta «che volevamo avere una prospettiva, un futuro criminale e non potevamo restare isolati, anche se riuscivamo a comandare nella nostra zona. Era per noi importante, per la nostra crescita ed il nostro riconoscimento criminale all’esterno, appartenere a quella che io chiamo una “linea” criminale, e la nostra linea era quella dei Piromalli di Gioia Tauro e dei Bellocco di Rosarno. Quello che faceva Umberto Bellocco, che ci conferiva le doti, ovviamente avveniva con il nulla osta dei Piromalli. Appartenere ad una linea criminale significa essere legati a queste altre famiglie ed al loro “Comando centrale” nel bene e nel male, in modo da ricevere aiuto se c’è bisogno, ma anche di essere obbligati a fare favori, anche e soprattutto in caso di guerra. Fino a che non ho collaborato con la giustizia, la mia “linea” a livello ndranghetistico era rappresentata da Giuseppe Piromalli, Luigi Mancuso, Nino Pesce, oltre ovviamente a Bellocco».

Ma quali erano i vantaggi? “Questa appartenenza ad una linea di ‘ndrangheta quindi consente di poter risolvere problemi, chiedere e ottenere favori, doverli però anche fare a richiesta, consente di ottenere rispetto e di sapere chi comanda in una zona e di sapere come comportarsi. I favori possono consistere anche nel fare omicidi”.

Franco Pino era amico di Peppino Piromalli, Luigi Mancuso, Nino Pesce. “Quando prima ho parlato di Comando Centrale di questa linea di ‘ndrangheta facevo riferimento, per quello che mi riguarda, alla famiglia Piromalli di Gioia Tauro e a Luigi Mancuso. E’ chiaro che questo discorso che sto facendo non si limitava alla “linea” che ho descritto ma riguardava l’intera Calabria e anche oltre. Le doti di cui ho parlato valevano per tutta la Calabria, il mio “vangelo”, per esempio, valeva allo stesso modo a Reggio come di fronte ai Mazzaferro di Gioiosa. Le regole che disciplinavano queste doti e il loro valore erano comuni in tutta la Calabria”.

Poi la precisazione: “Quindi non c’era ovviamente solo una linea di ‘ndrangheta ma possiamo dire che c’era una vera e propria ragnatela, composta da varie linee dello stesso tipo e da punti di contatto. E’ chiaro che anche io mi sentivo parte di questa ragnatela di rapporti. Questo sistema di comune appartenenza a queste linee di comando funzionava così: finché non succedeva nulla, ognuno era libero di governare il suo territorio di competenza, se però si verificava una situazione che poteva riguardare gli interessi criminali – e non – di un’altra famiglia o che interessava territori diversi (come ad esempio estorsioni a ditte che lavoravano su più territori o che erano vicine a qualcuno) allora scattavano questi meccanismi e bisognava fare certi passaggi. Noi cosentini, tuttavia, non rispondevamo direttamente alla Madonna di Polsi, per noi il riferimento era Piromalli”. Fonte: Gazzetta del Sud