Franco Pino e il pentitismo

Franco Pino

Sono trentatre (circa: accettiamo segnalazioni in caso di possibili e inevitabili dimenticanze) i pentiti della malavita di Cosenza. Abbracciano un arco di tempo che spazia dal 1986 a oggi.

Ci riferiamo a quelli della città di Cosenza e non a quelli della provincia, altrimenti il totale supererebbe il centinaio.

“A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani” si era lasciato sfuggire qualche tempo fa Vincenzo Curato, fuoriuscito dalle cosche sibarite. Un centinaio dal 1993, la stragrande maggioranza cosentini. Il resto proviene soprattutto dalla Jonio, visto che sul Tirreno la cosca Muto non ha risentito del fenomeno. Certo, ci sono, tra gli altri, Tonino Forastefano e Antonio Di Dieco ma è niente rispetto a quello che arriva dalla città.

Insomma, Cosenza città dei pentiti di malavita. Al punto tale che dedichiamo al fenomeno un capitolo specifico.

Antonio De Rose, il primo pentito dell’era moderna, anticipava la stagione del pentitismo ma non ha fatto proseliti e gli impianti accusatori sono stati abilmente manomessi. Come ebbe modo di affermare anni dopo uno dei tanti collaboratori cosentini, a De Rose non fu dato credito perché Cosenza doveva rimanere a tutti i costi un’isola felice in un contesto calabrese nel quale la criminalità organizzata invece dilagava. Un teorema molto caro ai procuratori della Repubblica Cavalcanti, Nicastro e Serafini… Che, come scriviamo anche in MalaCosenza, non li hanno mai “disturbati”.

Ma torniamo ai pentiti. Staffa, Cundari e Nemoianni sono più che altro personaggi pittoreschi, alle prese con le loro vicissitudini quotidiane. Cundari profana la tomba del maresciallo Aversa e millanta chissà quali mandanti. Durerà lo spazio di un mattino. Staffa avrà un minimo di credibilità in più ed è tra quelli ai quali viene chiesto di parlare contro Mancini. Così come Nemoianni.

I primi pentiti di spessore, nel 1993, sono Roberto Pagano e Dario e Nicola Notargiacomo. Il primo fa parte del clan Pino, i due fratelli del clan Perna. Dalle loro dichiarazioni partirà l’iter che porterà all’operazione Garden.

ROBERTO PAGANO

Quella di Pagano è stata una vita dedita al crimine, trascorsa tra fughe, arresti e lunghe detenzioni. Una vita che è cambiata solo quando, nel 1993, ha deciso di collaborare con la Direzione distrettuale antimafia.

Quello che non ha proprio mandato giù è il fatto di essere stato riconosciuto da entrambi i gruppi della malavita cosentina (anche da quello nel quale aveva militato a lungo) come corresponsabile dell’uccisione di Luigina e Antonio De Luca. Madre e figlio vennero barbaramente assassinati in un appartamento in piazza Zumbini il 6 maggio del 1991. Sono il cognato e la suocera dell’allora boss emergente Franco Garofalo. Antonio De Luca, tra l’altro, si trova agli arresti domiciliari. Non si sono mai capiti veramente i motivi alla base del duplice omicidio, consumato a pistolettate. I pochi fatti certi riguardano l’orribile scena del delitto ci sono furiosi segni di colluttazione e i volti di Luigina e Antonio De Luca, vengono trovati addirittura sfigurati a colpi di bastone.

Negli ambienti della malavita cosentina si fa strada subito l’ipotesi che gli assassini siano Roberto Pagano, Lucio Bassano e Giovanni Leanza. Franco Garofalo ne è così sicuro che nel breve giro di pochi mesi elimina Giovanni Leanza (27 giugno 1991), Francesco Pagano (12 luglio 1991) e Lucio Bassano (16 luglio 1991) .

Francesco Pagano era il fratello di Roberto. Garofalo in persona gli spara addosso nel suo autolavaggio al terzo lotto di via Popilia.

Roberto Pagano, pur autoaccusandosi di decine di crimini, ha però sempre negato d’essere stato l’autore, del duplice omicidio De Luca. Spiegando ai magistrati inquirenti le ragioni che l’avevano spinto a vuotare il sacco, il pentito affermò: «Ho deciso di collaborare perchè ho subito un’ingiustizia dai gruppi, nel senso che sono stato imputato di un omicidio che non ho commesso: l’omicidio di Antonio De Luca e della madre. Tutti i gruppi, sia quello Perna che quello di Franco Pino, hanno tramato contro… Hanno valutato che togliendosi questo peso – cioè decidendo la mia morte – avrebbero continuato a spadroneggiare. Hanno tentato in tutti i modi di uccidermi… Io ho provato anche da solo a reagire a questa situazione… Dopo due anni di tentativi e rabbia ho scritto una lettera alla dottoressa Musella (nel ’93 Pm a Cosenza n.d.r.) chiedendo di essere sentito…». Cominciò così a collaborare…

I Notargiacomo hanno eseguito la condanna a morte del direttore del carcere Sergio Cosmai nel 1985. Giudicati e assolti nell’immediatezza dei fatti, i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo, quando confessano il delitto, non possono essere più processati. Oggi, sono entrambi collaboratori di giustizia. E non solo.

FRANCO PINO E IL PENTITISMO

Dall’operazione Garden del 1994 in poi, si apre ufficialmente la stagione effettiva dei collaboratori di giustizia a Cosenza. Inaugurata da Franco Pino. Tocca a lui delegittimare il processo ed evitare che escano fuori le connessioni con il mondo della politica e dei colletti bianchi. In collaborazione con tutta una serie di luogotenenti che vengono arruolati proprio per rendere più credibili le tesi di Pino. Spargono fango sui magistrati, sono abilmente manovrati dalla Procura di Cosenza che ha l’obiettivo di insabbiare tutto quello che riguarda i rapporti della malavita con il livello politico.

E non a caso ce ne saranno tanti del clan avverso, anche se Franco Perna non ha mai ceduto.

Un’ulteriore distorsione è rappresentata proprio dallo spessore criminale di molti dei soggetti in questione. Oltre a Pino, l’esercito dei pentiti annovera Giuseppe, Ferdinando e Franco Vitelli, Angelo Santolla, Nicola Belmonte, Francesco Tedesco e Aldo Acri, ovvero l’intero gruppo di fuoco del clan Perna. Ma anche e soprattutto Franco Garofalo, a lungo braccio destro del boss.

Non è un caso, dunque, che al maxi-processo “Missing” celebratosi tra il 2007 e il 2012, a beccarsi le pene più severe siano stati solo i gregari, gli autisti, le staffette. Insomma, i personaggi di contorno. Lo stesso, identico meccanismo sperimentato con il processo Garden.

FRANCHINO I MAFARDA E VINCENZO DEDATO

Né hanno contribuito a svelare nulla di più altri pentiti ritenuti di rango come Vincenzo Dedato, Francesco Bevilacqua alias Franchino i Mafarda, Erminio Munno e Francesco Amodio.

Vincenzo Dedato è di Pizzo ma si è trasferito a Cosenza fin da quando era un ragazzino, è stato autista di Tonino Sena e dopo la pace contabile delle cosche in quota Lanzino e Cicero. Si pente nel 2007.

Sarà anche lui a delineare l’impianto accusatorio di “Terminator”, l’operazione condotta dalla Dia di Catanzaro.

Francesco Bevilacqua detto Franchinu i Mafarda, è stato leader fino a gennaio 2001 della comunità nomade di Cosenza.  Luberto lo ritiene tra i più attendibili sulla scena.

L’ex boss dei rom è stato catturato in una villetta di Gioiosa jonica, lo stesso anno in cui Gianfranco Iannuzzi, il ‘collega’ che sparò insieme a lui in quella che fu definita la strage di via Popilia (gli omicidi di Aldo Chiodo e Franco Tucci e il ferimento di Mario Trinni), scomparse vittima di lupara bianca. Bevilacqua decise di ‘pentirsi’, rivelò diversi particolari sugli assalti ai furgoni portavalori, affiliazioni, dinamiche tra clan, estorsioni e fece ritrovare la Lancia Thema sulla quale viaggiavano prima di aprire il fuoco. Era stata nascosta nella zona industriale di Rende nel cantiere di proprietà di Sergio Perri l’imprenditore edile che a soli sette giorni di distanza fu trucidato insieme alla moglie Silvana De Marco.

La malavita è in combutta con la politica per spartirsi gli appalti di Cosenza ma neanche pentiti come Dedato e Bevilacqua consentono di arrivare ai livelli più alti. O forse nessuno ha interesse ad arrivarci.

I pentiti, per esempio, riferiscono di un’estorsione di cui, tra il 2000 ed il 2001, dalle cosche capeggiate da Vincenzo Dedato e Domenico Cicero era stato destinatario Antonio Longo, il costruttore ucciso il 26 marzo 2008, mentre era alla guida della sua auto, lungo la statale dei due mari. Il pizzo scattò appena l’imprenditore ottenne l’appalto per i lavori di restauro del centro storico di Cosenza. Eppure non uscirono fuori i registi occulti.

FRANCESCO AMODIO

L’altro pentito di spicco di questo periodo è Francesco Amodio.

Ex aitante picciotto delle cosche bruzie, dopo aver collaborato a lungo per inchieste delicate come “Terminator”, scivola su una buccia di banana. Avrebbe taciuto la sua partecipazione a un delitto di `ndrangheta. Il collaboratore di giustizia non avrebbe confessato di aver preso parte agli appostamenti disposti per seguire le mosse di Vittorio Marchio, detto “il bandito in carrozzella”, ucciso il 26 novembre del 1999 a Cosenza. Per il magistrato della Dda di Catanzaro Luberto, l’ex malavitoso avrebbe mantenuto una condotta processuale incompatibile con i benefici di pena accordati ai pentiti e, per questo, ne ha invocato la condanna e l’arresto. Amodio se l’è cavata in qualche modo ma la sua “carriera” di pentito è sostanzialmente finita.

ERMINIO MUNNO

Erminio Munno, alias “Erminiuzzo”, smilzo e dinoccolato “bandito” della città vecchia, svela per primo alla magistratura l’esistenza nel Cosentino del clan riconducibile a “Bella Bella”. E lo fa nell’ormai lontano 1998, descrivendone la struttura gerarchica e indicandone pedissequamente i componenti. Munno era cresciuto in casa di Bruni godendo dell’affetto dei figli del boss e condividendone gioie e dolori.

Poi il pentimento. Dopo una rapina portata a termine a Crotone. Un pentimento che induce “Erminiuzzo” a raccontare tutto all’allora pm Alberto Liguori. Ma anche in questo caso, poco di veramente rilevante ai fini della conoscenza degli intrecci con i settori più importanti di politica e imprenditoria.