Giustizia nel caos. L’uomo mitra e i Piromalli

“Porto franco. Politici, manager e spioni nella repubblica della ‘ndrangheta”, pubblicato a giugno del 2012 da Dalai Editore, è un libro inchiesta sulla Calabria, “un viaggio e un ritorno” del giornalista, ex parlamentare ed ex presidente della Commissione Antimafia Francesco Forgione. Che torna nella sua terra della quale mette in luce aspetti, vicende e carriere personali che stentano ad avere l’attenzione pubblica che meriterebbero, anche a livello giudiziario. Ad esempio, Forgione si chiede perché la Procura Generale di Palermo, nel 2008, non valorizzò le trascrizioni di intercettazioni telefoniche fra il senatore Marcello Dell’Utri (condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa) ed emissari della ‘ndrangheta. E poi traccia il filo delle parentele di famosi magistrati – tra i quali anche Tommasina Cotroneo, la favorita del “tonno” Palamara – con gli uomini d’onore. 

“Ho voluto fare un viaggio nella terra che amo e nei suoi drammatici problemi – spiega Forgione -. Ho descritto il ruolo invasivo della ’ndrangheta sul territorio raccontando storie di persone. Ho consultato atti giudiziari e documenti di inquirenti. Ho acquisito ulteriori informazioni incontrando alcuni protagonisti e alcune persone informate. Non è stato facile. Molte persone hanno rifiutato per paura. Altri, seppure esitando, mi hanno aiutato, ma quando il libro è stato pubblicato non sono riuscito più a contattarle. Sembrano sparite. Non rispondono alle mie telefonate. Anche organizzare presentazioni pubbliche del libro è stato difficile. Sono riuscito a presentarlo a Cosenza, a Polistena, a Isola Capo Rizzuto grazie all’impegno di Libera e di don Pino De Masi. Ma non sono ancora riuscito a presentarlo a Reggio Calabria e nella Piana di Gioia Tauro”, alle cui vicende è in gran parte dedicato”.

A partire da oggi, dunque, entriamo nel vivo del racconto e per iniziare abbiamo scelto la drammatica storia dell’uomo mitra, dalla quale tutto è cominciato.

LUOMO MITRA

Tutto comincia con un morto ammazzato. Perché in questa storia ci sono deputati e senatori, magistrati, avvocati, imprenditori, ma ci sono anche e innanzitutto i boss e i picciotti della ‘ndrangheta. E quelli, prima di tutto, ammazzano. Così, per vocazione o per fedeltà, oppure, secondo la loro testa malata, per “giustizia”. E così era stato anche in una delle tante serate afose dell’estate del 2007.

Durante il giorno, quando il caldo è pesante e ti manca l’aria, nella Piana di Gioia si respira un poco solo sotto gli ulivi che da queste parti sono alti come querce e coprono d’ombra le strade come fossero gallerie. Ora che il sole è tramontato, sotto gli alberi il buio è ancora più nero, cupo. Non si vede una stella. Il cielo, come di giorno, non c’è.

Un vecchio contadino di sessantasei anni si gode l’aria che gli sbatte in faccia mentre la taglia viaggiando sul suo motorino. Torna dalla campagna. Da dietro, i fari di una macchina lampeggiano e lui, rischiando di cadere nella cunetta, si mette di lato per farla passare. Appena se la trova di fianco, non fa in tempo a girarsi a guardare che parte una scarica di colpi di pistola 7.65 che lo lascia quasi senza vita sull’asfalto. I killer continuano tranquilli e si perdono nel reticolo di strade che attraversano la Piana come una tela di ragno. L’uomo, subito soccorso da altri passanti, fa solo in tempo ad arrivare all’ospedale di Gioia Tauro per finire il suo ultimo viaggio.

L’aria trasandata della vita nei campi, la pelle indurita e bruciata dal sole, la barba lunga non tagliata da anni. Sembra un barbone, uno di quelli per i quali non vale la pena neanche buttarci il costo di un proiettile. E invece, appena si scopre il nome, i cronisti si affrettano a rispolverare la storia di una vecchia faida che dagli inizi degli anni Settanta aveva insanguinato Seminara, un paesino a pochi chilometri da Gioia Tauro. E’ Salvatore Pellegrino, ma per tutti era l’uomo mitra.

Per anni la sua famiglia e quella dei Gioffrè si sono sterminate per le strade della Piana. E lui andava in giro spavaldo con un vecchio fucile mitragliatore e seminava il terrore tra i nemici e la gente inerme che per sbaglio vi si imbatteva.

Ancora si racconta di quando il giorno dopo un omicidio, si presentò ai funerali della sua vittima col mitragliatore in mano. Gli amici che portavano la bara in spalla, terrorizzati, la lasciarono cadere in strada e fuggirono. E scapparono anche i becchini, che precedevano il corteo col carro funebre.

Alla fine della guerra, però, sarà la sua famiglia a soccombere. E, quando tutti i maschi sono sterminati, lui, ormai sconfitto, si lascia arrestare. Alcune gesta folli della sua leggenda nera gli servirono a farsi dichiarare pazzo e a farsi internare nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Fare il pazzo in un manicomio è dura. Ma è meglio del carcere, dove ti puoi trovare nella cella accanto il parente di uno che hai ammazzato. E poi, gli avvocati gliel’avevano spiegato bene, con la pazzia gli accorciavano pure la pena.

Tornato in libertà dopo circa vent’anni, Salvatore è un’altra persona. Carcere e manicomio l’hanno cambiato. Va a vivere a Pontevecchio, una zona contadina alle porte di Gioia Tauro. Anche nel fisico è trasformato. La barba lunga da santone ne accentua un aspetto “mistico” che prima non aveva. E lui tutte le sere al tramonto lì, vicino alla sua campagna, si ferma in una chiesetta a pregare. Per tutti è un altro uomo. Anche i famigliari delle sue vittime lo lasciano in pace. Ormai la faida è finita e loro, i Gioffrè, sono diventati i padroni assoluti di Seminara e una delle cosche più potenti della Piana. Un vecchio pazzo non può far male a nessuno.

Qualcuno, però, non è convinto della sua follia e ancora meno della sua santità. Sono i Piromalli. Dalla loro rete di informatori hanno saputo che proprio lui, l’uomo mitra, vorrebbe chiedere il pizzo alla cooperativa Valle del Marro. Non che i Piromalli ora si mettano a difendere quella cooperativa. Anzi. L’hanno fatta i ragazzi di Libera, l’associazione antimafia guidata da un prete, Don Pino De Masi, che da anni sta davvero rompendo l’anima a tutta la Piana con ‘sta storia della lotta alla mafia. Prediche, marce, convegni. E ora pure la cooperativa e d’estate i campi di lavoro per ragazzi. Arriva persino a negare i funerali pubblici ai boss che,per il bene fatto e quello che vogliono alla loro gente, se lo meriterebbero e dovrebbero essere pianti più di altri. Come se non bastasse, la cooperativa lavora proprio sulle terre confiscate ai Piromalli.

Figuriamoci ora se è mai possibile che alla famiglia gli sequestrano la terra, gli fanno una cooperativa e poi arriva pure uno che fa finta di essere pazzo e ci vuole mettere le mani, prendersi il pizzo e fare soldi.

Il dubbio viene anche alla polizia. Andando avanti con le indagini sulla morte dell’uomo mitra, è sempre più chiaro che la storia della faida è cosa vecchia. Non c’entra niente. Bisogna battere altre piste. Intanto è bene mettere sotto controllo il telefono di Antonio, il figlio di Pino Piromalli, il boss Facciazza, per sentire come ne parlano tra di loro gli uomini del clan.

Inizia tutto così, quasi per caso. Ascoltando Antonio, irrompono nelle cuffie dei poliziotti i nomi degli insospettabili. E’ vero, quando si dice ‘ndrangheta si dice potere. Ma qui non siamo in un convegno dove quelli che fanno gli esperti di mafia, per darsi un tono, devono per forza parlare della politica, degli onorevoli collusi, del governo e della mafia che sta a Roma, se no l’applauso del pubblico non arriva. Qui, maledette intercettazioni, anche se è da non credere, è tutto vero.

Le intercettazioni sono così: parti da niente, che nella Piana un omicidio è niente, e scopri un mondo che non riesci nemmeno a immaginare. Perché, qualcuno poteva pensare mai che mentre parlavano due o tre compari tinti, poi arrivavano le voci di quelli belli puliti, che fanno i ministri a Roma, hanno la segreteria a Milano o gli affari dall’altra parte del mondo?