Il Pd è stato già cancellato (di Antonio Tursi)

di Antonio Tursi 

docente di Sociologia politica

La riflessione sul Pd dopo la catastrofe del 4 marzo deve svilupparsi su tre dimensioni. È necessaria però una premessa, cioè è necessario esplicitare l’emittente e il destinatario di una simile riflessione. Chi scrive è un iscritto al Pd, nelle cui fila ha svolto anche qualche piccolo ruolo. Chi scrive ha cioè la sua parte di responsabilità nell’aver sostenuto un partito dei ceti abbienti e dell’establishment. A chi si rivolge? Non certo ad altri iscritti o a dirigenti e amministratori che portano le sue stesse e assai maggiori responsabilità e che, in molti casi e soprattutto a determinate latitudini, sono sordi a parole di chiarezza, allineati al potere costituito e incapaci di assumersele quelle responsabilità. Ha senso perciò rivolgersi a chi è fuori dal Pd, a chi ha creduto a questo progetto ma ormai vota altri partiti nella speranza e nella disperazione di veder affrontati quei problemi rispetto ai quali il Pd è percepito come parte e non come soluzione.

Qualcuno ha scritto che bisogna cancellare o sciogliere il Pd. In verità, il Pd come partito di popolo e nello specifico di un popolo di sinistra è stato già cancellato. È stato cancellato nel momento in cui ha aderito al Pse, senza rendersi conto che la sua funzione storica sarebbe dovuta essere quella di disgregare il socialismo europeo per ricostruire una sinistra europea. Questa è la prima dimensione di analisi necessaria a comprendere ciò che è successo il 4 marzo e che è stato ampiamente anticipato dalle sorti dei partiti socialisti in Grecia, Spagna, Francia e Germania. Il socialismo europeo ha perso la sua capacità di costruire e rappresentare un popolo, di essere cioè populista nell’accezione che ne offre Ernesto Laclau, il quale – è bene ricordarlo – propone come esempio di riuscito populismo a lungo termine il progetto gramsciano-togliattiano del Pci. Il socialismo europeo è finito perché non rappresenta più le nuove fratture che ridisegnano lo spazio politico su assi diversi rispetto al passato. Ricostruire un popolo deve significare oggi afferrare una bandiera nuova, che sia Una. Questa si può rinvenire nella lotta alla precarizzazione delle forme di vita, processo da cogliere non solo nella dimensione meramente economica e da combattere per ricostruire un senso del futuro.

Rispetto a questa opportunità, i governi del Pd e in particolare quello di Matteo Renzi hanno agito in maniera diametralmente opposta. Scelte come l’abolizione dell’articolo 18 con il cosiddetto Jobs act o la logica dei bonus hanno sancito una incompresa direzione di marcia verso la crescita della percezione di vita precaria da parte dei cittadini italiani. Anche la riforma della scuola, pur segnando l’immissione in ruolo di numerosi precari, ha minato questo risultato con la dislocazione geografica e l’impostazione di nuovi rapporti di potere all’interno degli istituti. Definire Renzi un politico di destra significa sopravvalutarlo. Piuttosto, egli ha rappresentato una degenerazione del machiavellico politico dell’occasione. Degenerazione legata alla sua incapacità culturale di leggere la società italiana e i processi di globalizzazione in atto (il contesto) e la direzione di marcia inavvertitamente intrapresa. Elezioni locali, referendum, elezioni politiche: tutte sonore bocciature della sua leadership. Il cui stridore è reso ancor più acuto dai buoni risultati del Pd nelle zone agiate delle grandi città: a votare il Pd sono rimasti cioè i ceti abbienti dei Parioli e della Milano da bere. È mancata a Renzi qualsiasi visione propulsiva del partito e del governo. Così come qualsiasi visione manca ai governatori regionali ereditari da un ormai anacronistico passato. Soprattutto al Sud dove i risultati sono stati clamorosamente negativi per il Pd (sostenuto quasi solo dal voto clientelare) e inversamente positivi per il M5s.

La riflessione su queste due dimensioni – la sinistra europea e la capacità di governo – è necessaria a comprendere la catastrofe del 4 marzo. Ma non rappresenta affatto un alibi, utile a giustificare le deleterie scelte sul partito e sui candidati. Rottamare il partito (o quel poco di sentimento di partito ancora vivo) ha significato un mero sostituismo, portando al vertice un ristretto nucleo di fedelissimi non sempre all’altezza del compito. Ed infatti capaci di essere eletti solo nei collegi blindati (ormai pochi) o con l’aiuto delle liste bloccate. A fare da contraltare al cosiddetto giglio magico, i tanti micronotabili sparsi sui territori e di fatto prontamente accolti nelle sue fila dall’ex rottamatore, con tutto il loro seguito di pacchetti di tessere e primarie truccate.

Cosa rimane del Pd? Macerie. Classi (poco) dirigenti avvinghiate agli scranni parlamentari o ai posti di potere locale, questi ultimi non ancora subissati dall’ondata grillina o destrorsa. Si può ripartire? No. Infatti, del tutto inconsapevolmente ma prontamente si è nominato il mai vincente Martina liquidatore fallimentare del Pd. Cosa fare? Ripensare e praticare la sinistra e le forme organizzative della rappresentanza nel XXI secolo. Ma soprattutto e prima (la premessa è in verità l’unica conclusione sensata) invitare a farlo chi sinora non ha avuto responsabilità nel Pd e non gli stessi che, a tutti i livelli, hanno conseguito così disastrosi risultati. Arrivano i barbari, “sono una soluzione, quella gente”.