LA CITTA’ INVISIBILE
di L.A. Nàpia
“Vènera la bella, con la pelle color dell’ocra, bagnata di sole e crinita di tetti”.
–Sei bella come una vecchia bagascia. Anche così, sfatta, lercia, fetida, mi attizzi, puttana di una città!
Così la sfotteva seriamente il critico d’arte impotente e lascivo che la veniva a trovare perché l’amava quasi quanto la marchetta che ogni volta si faceva pagare per pisciare in testa ai potenti, alle vecchie contesse, alle nuove zoccole in fregola artistica, che godevano ad ogni peto, ad ogni bestemmia, ad ogni sputo.
Vènera, se lo ricordava quando era stata l’amante, la tana calda e odorosa di uomini folli di sapere, meno di virtù. Con Federico, per poco si era giaciuta e dai filosofi aveva bevuto sapienza come da Galeazzo il seme della poesia e degli amplessi.
Quando lo raccontava, adesso, a chi veniva, quasi per sbaglio, a trovarla moriva di vergogna ogni volta di più, per lo scherno dei molti, la pietà degli altri. E anche per l’amore desolato di chi la vedeva bellissima.
Ora i suoi seni flosci ricadevano scomposti sui colli, a nord, svuotati di carne e di gente; le gambe, il suo sesso aperto a contenere i due fiumi, si allargavano a raggiungere paesi che non avrebbe mai nemmeno sfiorato.
Quando era arrivato, l’aveva fatto di soppiatto. Il fratello sembrava un ragazzo, con fattezze gradevoli; lui aveva una faccia morbida che mal sosteneva i lineamenti, facendoli affondare in una consistenza da pupazzo.
Il fratello sapeva parlare, un poco; lui aveva una voce chioccia, che mal sosteneva le parole, facendole affondare in un tono querulo come di chi si annoia, ascoltandosi.
Aveva la rabbia cattiva: girava lo sguardo di lato, a fissarti da sotto e da dietro, quando affondava le parole che tradivano, con la loro inconsistenza, la furia di quello che si sentiva sempre il fratello.
L’amava –diceva– era stata sua madre, dal suo sesso di strade contorte era uscito anche lui! E, infatti, l’amava di quell’amore velenoso, distillato dal rancore e dalla vergogna di chi si vergogna di odiare chi ti ha generato. Era andato lontano e quando era tornato aveva pantaloni a sigaretta, scarpe con la fibbia di lato e camicie col collo aperto, bianche, dove si appoggiava il primo rigurgito di pancia che il fratello non avrebbe mai avuto.
Ma era tornato e adesso le doveva mostrare che cosa era diventato.
Archistar, lo chiamavano. Arredava le strade come i salotti delle mogli degli industriali di ultima generazione; bestemmiava le Madonne in chiese container, faceva interventi di chirurgia irreversibili, trasformando opere d’arte in monumenti al botulino plastico.
Era tornato perché lei lo vedesse, lo amasse, gli dicesse che era figlio delle sue viscere e degli squarci del suo corpo dolente.
Le mise in testa un castello finalmente degno di questo nome, dove le principesse per una notte, con le extension e i seni su misura, ballassero con il loro principe con il Rolex, i tatuaggi e la coca di serie, musica fusion, cocktail, divanetti e vuoto pneumatico.
Le regalò due dozzine di murales, enormi, di smisurata bruttezza; li aveva scelti con cura come quelli che, chi può, appende nei salotti arredati con poltrone intarsiate, di legno dorato, rivestite di pastorelle annaspanti nel velluto spesso due dita.
–E’ la tua storia, le disse, aspettando che lei lo lodasse.
La perforò in ogni angolo, la squarciò nel profondo per attaccarglieli addosso; la penetrò in ogni anfratto per trovare nuovi luoghi.
Lei lottò, come l’animale ferito che era, si scosse per scrollarsi di dosso quell’onta di legno e vernice; in uno spasmo più violento fece crollare strade e palazzi ma alla fine si arrese.
Caduta e rantolante, lui la percorse, in processione, calpestandola, con il peso del Santo.
–Regina, -le disse, per ultimo- non più la puttana percorsa da cento forestieri, ma sarai la sposa di un re, un gran Re, il più grande. Grande quanto il suo tesoro. Te l’ho infilato tra le cosce -la schernì- a guardia del vostro segreto.
Ancora una cosa voleva da lei.
–Dimmelo! Dov’è, tu, tu sola, lo sai. Dimmelo, ne ho bisogno. Sai che posso distruggerti e costruire al tuo posto una vera città che passerà alla storia assieme al mio nome!
Lei taceva, nulla poteva più raggiungere le sue orecchie di pietra, il suo cuore di roccia; la distruggesse, la distruggesse pure. E che non restasse più pietra su pietra.
Poi, in un ultimo sussulto, capì.
Spinse, come nel parto, spinse ancora, più forte e tra le cosce, dove scorreva come nell’amore, l’umore acqueo dei due fiumi, apri un pertugio, lungo e stretto. Glielo indicò. Era largo appena quanto un uomo poteva penetrare, non più.
Lui, sicuro delle risposta della madre, si calò a fatica, entrò quanto poté in quella fenditura; poi il terreno gli mancò, l’appoggio non c’era, cadde ma per poco.
A sorreggerlo, per un’ultima, definitiva, volta il braccio possente, ripiegato di un enorme candelabro d’oro che lo squarciò, fino al fondo alle viscere.
I giornali non poterono che commentare che la passione smisurata per la città e per la sua storia più grande avevano preso per sempre la vita di quel suo figlio, il più fedele, il più amato.
Di certo, nessuna sepoltura poteva essere più degna e grata al defunto.
Alla Confluenza dei Due Fiumi.
AlaRex, Vale!
“Vènera la bella color dell’ocra, bagnata dal sole, ora sorride, specchiandosi nei suoi due fiumi, pregando per la prossima piena: che seppellisca Alarico e il suo cavallo. Di nuovo”.
L.A. Nàpia