La “cupola” Reggio-Cosenza: le inchieste di Cordova e i giudici massoni

Agostino Cordova

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

Da qualche anno ormai stiamo ricostruendo la genesi dell’asse politico-massonico-mafioso tra Reggio Calabria e Cosenza.

Le inchieste di Federico Cafiero De Raho sono inevitabilmente figlie di quelle di Agostino Cordova, dello stesso Nicola Gratteri, di Salvatore Boemi e di Luigi De Magistris. Nessuno di loro, dal 1992 ad oggi, è riuscito a dimostrare l’esistenza effettiva di questa “cupola” nonostante ci abbiano lavorato con grande impegno ed ardore. E in mezzo a tanti doppiogiochisti ed esperti in depistaggi, in una parola sola pezzi deviati dello stato.

Siamo partiti dal bandolo di questa storia, Paolo Romeo, detto dai pentiti il “Salvo Lima reggino”, che muove le fila della politica a Reggio Calabria, grazie ai contatti organici con le cosche e la massoneria.

Finita la prima guerra di mafia, secondo le dichiarazioni di diversi pentiti, Giorgio De Stefano, insieme al cugino Paolo e ad altri appartenenti alla nuova ’ndrangheta, entrò nella loggia massonica segreta fondata, tra gli altri, da Franco Freda e Paolo Romeo, esponenti della destra eversiva che il 14 luglio 1970 avevano organizzato la rivolta dei “Boia chi molla” a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione).

Giorgio De Stefano

Il pentito Giacomo Lauro affermerà: “Mi risulta personalmente che anche alcuni magistrati avevano aderito alla massoneria e, per garantirli, la loro adesione era all’orecchio e i loro nominativi venivano tramandati da maestro a maestro”.

Un sistema perfetto. Il vero “Modello Reggio” poi continuato da Scopelliti.

Il gancio con Cosenza è Pino Tursi Prato, socialista prima vicino ai Gentile e poi ribellatosi al loro dominio per sposare la causa di Paolo Romeo nel PSDI di Antonio Cariglia “niente lascia e tutto piglia” come scriveva nei telegiornali di Telecosenza Giacomo Mancini, alla cui corte sarebbe poi approdato.

Romeo e Tursi Prato, con l’aiuto di due capibastone della malavita cosentina come Franco Pino e Pietro Magliari, mettono a segno un’estorsione ai danni di un imprenditore reggino che aveva vinto un appalto nell’USL comandata dallo stesso Tursi Prato. E siglano la tregua con Tonino Gentile in uno studio legale cosentino, garante sempre Franco Pino. Il dado è tratto.

Pino Tursi Prato

Tursi Prato e Romeo vengono eletti a sorpresa alle Regionali del 1990 ma bussa alle porte il 1992, l’anno di Tangentopoli e delle grandi inchieste.

E se Tursi Prato ha un rapporto privilegiato con la cosca reggina dei De Stefano, altri socialisti hanno intessuto trame con la ‘ndrangheta, a Rosarno, il regno dei Pesce. Ancora una volta la prova di un altro importante asse Reggio-Cosenza.

QUARTA PUNTATA

Alla vigilia delle elezioni politiche nazionali del 1992 scattò quello passato alle cronache come il “blitz delle preferenze” ordinato dall’allora procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e dall’allora pm della Procura di Locri, Nicola Gratteri.

Durante l’operazione, gli investigatori trovarono in diverse abitazioni di ‘ndranghetisti della Piana di Gioia Tauro e delle Locride, numerosi santini elettorali e fac-simili elettorali di alcuni candidati alla Camera dei deputati ed al Senato, fra i quali anche quelli di Sandro Principe.

All’epoca Principe era appena quarantenne, alla seconda esperienza da deputato e viveva ancora un po’ nell’ombra del padre Cecchino prima da giovane sindaco di Rende (il loro feudo indiscusso trasformato in città modello con tanto di università) e poi da altrettanto giovane deputato investito della carica di sottosegretario al Lavoro ai tempi delle prime grandi vertenze regionali.

Il procuratore Agostino Cordova chiese due volte alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere contro l’allora onorevole Sandro Principe, autorizzazione però sempre negata.

Nella richiesta del procuratore Cordova era dato leggere di una “campagna elettorale fatta per Sandro Principe da mafiosi e pregiudicati della Piana di Gioia Tauro (boss Versace di Polistena, Avignone di Taurianova, Pesce e Pisano di Rosarno ed altri)”.

I carabinieri riuscirono pure a fotografare alcuni incontri di Sandro Principe con Marcello Pesce, esponente dell’omonimo clan, in un bar di Rosarno.

Agli atti spediti nella richiesta di autorizzazione a procedere, anche le presunte lettere di “raccomandazione” inviate da Sandro Principe all’allora sottosegretario alla Difesa socialista al fine di far ottenere l’esonero dal servizio militare di un pregiudicato di Rosarno fratellastro di Marcello Pesce.

Secondo i magistrati Agostino Cordova e Francesco Neri, tale ultimo favore sarebbe stato chiesto a Sandro Principe dall’allora consigliere comunale socialista di Rosarno, La Ruffa, ben noto alle forze dell’ordine e cognato degli stessi Pesce. Un atto assolutamente illegittimo, secondo i magistrati inquirenti, visto che il fratellastro di Marcello Pesce era stato dichiarato idoneo al servizio militare.

L’intera vicenda si concluse per Sandro Principe nel migliore dei modi. Nel 1995 la Procura di Palmi (Cordova nel frattempo era già divenuto dal 1994 procuratore di Napoli) chiese ed ottenne dal gip l’archiviazione per le accuse rivolte a Sandro Principe.

Fonte: Zoom24 – Giuseppe Baglivo 

Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte.

“La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”.

Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni.

LA MASSONERIA COSENTINA: ETTORE LOIZZO

Ed ecco apparire all’orizzonte un altro cosentino dopo Pino Tursi Prato, Antonio Gentile, Franco Pino, Franz Caruso e Pietro Magliari, che abbiamo incontrato nelle puntate precedenti.

Ettore Loizzo di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia”.

A dirlo è stato l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo – in carica nei primi anni ’90 e fondatore poi della Gran Loggia Regolare d’Italia – sentito il 6 marzo 2014 dal pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nell’ambito dell’inchiesta Mammasantissima sulla cupola segreta degli “invisibili” della ‘ndrangheta.

Ma chi è Ettore Loizzo di Cosenza?

Prima Gran Maestro Aggiunto e poi reggente del Grande Oriente d’Italia, è il calabrese col “grembiulino” che ha raggiunto i più alti livelli della Massoneria di Palazzo Giustiniani, la più importante tra le “obbedienze” riconosciute nel nostro paese. E’ scomparso nel 2011.

Per capire bene chi era bisogna andare parecchio indietro nel tempo. Ma possiamo partire da un dato: Loizzo è stato per anni un brillante esponente del Partito Comunista Italiano prima di essere costretto a lasciarlo proprio perché massone dopo il caso eclatante della loggia P2 di Licio Gelli degli anni Ottanta e la successiva legge Anselmi che vietava le società segrete. E quindi consigliava ai partiti di imporre una scelta ai massoni più o meno esposti.

LE INDAGINI SU ETTORE LOIZZO

Ettore Loizzo finisce nel calderone. Ecco l’agenzia AGI del 5 novembre 1992.(AGI) Cosenza 5 Nov – Proseguono, anche a Cosenza, le indagini disposte dalla Magistratura di Palmi alla ricerca delle prove circa l’ esistenza di logge massoniche” coperte”. Sono stati perquisiti lo Studio e l’ abitazione dell’ esponente massonico Ettore Loizzo (anche se l’ interessato ha negato il fatto) e quella di Mario Lucchetta, Gran Maestro della Loggia” fratelli Bandiera”. In quest’ ultima abitazione, secondo indiscrezioni, sarebbero stati sequestrati documenti e carteggi ritenuti importantissimi.  (AGI)

Così scriveva invece La Repubblica

Vengono fuori molte sorprese. A Cosenza, dove sono stati perquisiti lo studio e l’ abitazione dell’ ingegner Ettore Loizzo, uno dei massimi esponenti del Grande Oriente d’ Italia, i carabinieri hanno trovato carte e documenti relativi al processo su mafia, droga e politica da cui è scaturita questa maxi-inchiesta sulla massoneria deviata. In che maniera, con quale interesse e per farne quale uso Loizzo è entrato in possesso di quelle carte? Sono interrogativi che i magistrati cercheranno di chiarire. Ma nell’ inchiesta sulle cosche di Rosarno è coinvolto anche Licio Gelli. E in Calabria c’ era qualche massone che si era adoperato per far riammettere l’ ex capo della P2 nella massoneria.

Una “trattativa” che si sarebbe conclusa nel 1991 con un accordo mai trovato dai magistrati di Palmi. Così come non furono mai chiarite le questioni che ruotavano intorno a Loizzo.

Di sicuro, però, Di Bernardo si affretta ad uscire da questo grandissimo casino e lascia le responsabilità del suo incarico determinando la scissione. E così il cosentino Ettore Loizzo diventa Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993. Praticamente il nuovo capo della massoneria al posto di Di Bernardo.

Già, Di Bernardo. Oggi che Loizzo non c’è più, è il solo che può riferire di quelle circostanze e nello specifico, dopo la clamorosa rivelazione del massone cosentino circa le 28 logge infestate dalla ‘ndrangheta, afferma testualmente.

“Gli dissi: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui – ha detto Di Bernardo al pm – mi rispose: nulla. Chiesi perché. Mi rispose che altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse a prendere contatti con il Duca di Kent, che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie avute dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”.

Ma Ettore Loizzo, già all’epoca, contestava con forza questa interpretazione dei fatti e definiva pesantemente Di Bernardo.

“L’indagine di Cordova? Con questa rottura diplomatica tra noi e gli inglesi non c’entra – risponde Loizzo – anche se le menzogne di Di Bernardo hanno fatto da copertura a questo gioco. Non siamo stati neanche ascoltati dai fratelli inglesi – reclama più diplomatico Ghinoi – ma un imputato ha diritto ad un processo. Per quanto riguarda Cordova ci ha ricevuto ed ha specificato di non aver nessuno motivo di contestazione nei nostri riguardi, ma è interessato alla scoperta di eventuali logge deviate. Dal canto nostro abbiamo sospeso 75 fratelli sospetti, ma sono un esiguo numero di fronte agli altri 18mila iscritti oltre alle 1400 domande attualmente in attesa. Succede solo in in Italia – ha concluso Ghinoi – che l’iscrizione ad alcuni partiti politici sia vietata a membri della Massoneria. Ma la storia insegna che quando la Massoneria è attaccata, successivamente dopo viene attaccata la democrazia”.

Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere.

Provvidenziale arrivò l’ordine di trasferire per competenza a Roma le indagini. E ancor più salvifico fu il ruolo del pm che venne delegato.

Era Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe diventata di li’ a poco personalita’ di spicco a via Arenula nei governi targati Berlusconi. Quell’inchiesta naufraga nel 2001 in una colossale archiviazione. «E da allora – racconto’ Cordova alla Voce in un’intervista di qualche anno fa, alla vigilia del suo trasferimento forzato dalla Procura di Napoli – quei faldoni sono rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio».

4 – (continua)