Era il 12 ottobre del 1983 quando. nella piana di Lamezia Terme, viene sequestrato dalla ‘ndrangheta il noto imprenditore vivaistico Giuseppe Bertolami. Un rapimento che non si risolse positivamente perché non tornò più a casa, ma neppure il suo corpo verrà mai restituito. Una storia tragica che nessuno ha mai dimenticato, tanto meno chi opera ogni giorno per il recupero e il mantenimento della memoria collettiva, come la Fondazione Trame e l’Associazione Antiracket Lamezia
di Gilda Sciortino
Quei giorni sono impressi a fuoco nella sua mente e purtroppo niente e nessuno potranno mai farli cadere nell’oblio. Dal tardo pomeriggio del 12 ottobre 1983 la sua vita e quella di tutta la famiglia cambierà per sempre, segnata dal rapimento del padre.
Il dolore più grande per una famiglia? Non avere un corpo al quale portare un fiore e pregare
– Carmelo Bertolami, figlio di Giuseppe, sequestrato in Calabria il 12 ottobre dell’83
«Erano passate da poco le 18 e mi ero mosso in direzione di Lamezia perché dovevo incontrare un geometra per parlare di lavoro. Mio padre mi avrebbe raggiunto di lì a poco, una volta liberatosi dalle ultime incombenze in azienda. A un certo punto mi chiama un dipendente che stava rientrando a casa e avevo visto la macchina di mio padre, una Fiat 132, ferma lungo la statale 18 con lo sportello aperto. Corro e la trovo con il quadro ancora accesso, come in attesa che qualcuno tornasse e la mettesse in moto per ripartire. Ovviamente di mio padre nessuna traccia, così chiamo la polizia e cominciano la indagini. Ma anche una lunga attesa che ancora oggi tiene in sospeso tutti».
La telefonata dei sequestratori arrivò ben presto a persone vicine alla famiglia, chiedendo che il fratello Antonino preparasse quattro miliardi di lire, 4 stecche per sant’Antonio. Una somma importante per l’epoca che, però, dopo varie trattative, scenderà a un solo miliardo.
Si, un’attesa che dura 40 anni, per la famiglia di Giuseppe Bertolami del quale, però, non si avrà mai più notizie. Solo la classica foto con la “Gazzetta del Sud” e la data per dimostrare che in quel momento l’imprenditore era vivo, null’altro.
Numerosi i rapimenti eccellenti che si svolsero dagli inizi degli anni Settanta
«Il caso Bertolami non fu un episodio isolato», – spiega Nuccio Iovene, presidente di Fondazione Trame, che in collaborazione con i familiari e l’associazione antiracket Lamezia ( Ala) ricorderà Giuseppe Bertolami a quaranta anni dal suo rapimento con una giornata di memoria collettiva -, «ma si inserisce in un periodo nero della cronaca locale del lametino: la stagione dei sequestri di persona a scopo estorsivo con i rapimenti eccellenti della Lamezia bene, tra cui Mario Bilotti, Roberto Bertucci, i coniugi Gabriele D’Ippolito e Filomena Ciliberto, Nino Tripodi, Francesco Grandinetti, Filippo Caputi, ma anche di altre personalità del resto d’Italia».
Come ricostruito all’epoca dal cronista Ugo Caravia: «La stagione dei rapimenti di persona nel lametino si svolse in due fasi: la prima ebbe inizio nel 1970 con il sequestro dell’ingegnere Bilotti. (…) La seconda, invece, si svolse nella prima metà degli anni ’80. In questa fase avvenne il rapimento del floro-vivaista Bertolami, che non si concluse con il suo ritorno e che non se ne parlò più. La città fu il teatro di un altro rapimento, sempre nei primi anni ’80, che vide prigioniero per sei mesi il figlio di un industriale di Tivoli».
Doloroso ancora oggi il ricordo di quanto accaduto.
«Dovevo essere io a portare i soldi ai sequestratori» – pesca nella memoria il figlio Carmelo che all’epoca aveva 32 e, da allora, insieme alla sorella Aurelia, cinque anni più giovane di lui, continua a chiedere verità e giustizia -. «Li mettemmo dentro una valigia dipinta di bianco posta sopra una 126 e la sera partii. Dovevo seguire tre percorsi: alla fine dell’ultimo avrebbero liberato mio padre. Il primo era dall’azienda fino a Reggio, sulla statale 18; il secondo sempre da Lamezia per arrivare a Soverato attraversando le montagne; il terzo sarebbe stato fino a Castrovillari attraverso l’autostrada. Un percorso diverso al giorno. Lungo uno di questi, i sequestratori avrebbero preso il denaro. Quando, però, mi stavo preparando per partire alla volta della seconda tappa di quella che sembrava una processione piena di spine, mi chiamarono dicendo che annullavano tutto perché si erano accorti che mi seguivano. Forse avevano ragione, ma in quel momento fu la fine di tutto, si bloccò ogni operazione e, da allora, mio padre non è mai più tornato a casa. Passarono un paio di mesi e, nel frattempo, Lamezia Terme divenne teatro di numerosi omicidi, così la storia di Carmelo Bertolami è passata sempre più in secondo piano».
Anni complicati un po’ in tutta la Calabria.
«Non solo Lamezia naturalmente, ma l’intera regione, soprattutto l’Aspromonte, a partire dagli anni ‘70 si fece custode dei rapiti» – aggiunge Iovene – «e la ‘ndrangheta divenne una delle maggiori fautrici dei sequestri. Novantadue furono i sequestri compiuti in Calabria, sui 561 verificatisi in Italia tra il 1968 e l’83, e ben 191 attribuibili a organizzazioni delle cosche, la cosiddetta “Anonima calabrese”. In Aspromonte finì perfino Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano. Nella maggior parte dei casi, i sequestri si risolsero con la riscossione del riscatto, a volte persino nel giro di qualche ora. Bertolami resta il solo nel lametino a non essere ritornato a casa. Un episodio simile coinvolse molti anni più tardi il fotografo Lollò Cartisano. Era il 22 luglio del 1993 quando venne prelevato da Bovalino. Nonostante il pagamento del riscatto, 200 milioni di lire non ritenute sufficienti, Lollò non sarebbe mai stato liberato. Il suo fu l’ultimo dei terribili sequestri di ‘ndrangheta, l’ultimo dei diciotto che l’organizzazione mafiosa abbia compiuto solo a Bovalino. I suoi resti furono ritrovati ai piedi di Pietra Cappa, solo dieci anni dopo, nel 2003, in seguito a una lettera anonima di pentimento, probabilmente sollecitata dalla significativa mobilitazione della famiglia e in particolare della figlia Deborah autrice di innumerevoli appelli e anima del movimento giovanile “Bovalino Libera”. Il suo sequestro anomalo è ancora oggi avvolto nel mistero. Proprio come quello dell’imprenditore lametino di cui però non si sa ancora nulla».
E nel ’92 che la vicenda Bertolami sembra avere una svolta.
«Mi chiamano dalla procura di Lamezia e mi dicono che un pentito stava parlando di mio padre. Si trovava nel carcere di Frosinone e aveva sentito un detenuto raccontare cosa era successo. Indicò un luogo nel quale si sarebbero dovuti trovare i suoi resti, quindi andammo. Due giorni di scavi insieme all’allora sostituto procuratore di Locri, Nicola Gratteri, ma fu un altro buco nel vuoto. Tornai a casa più affranto di prima».
Nel frattempo anche l’azienda cerca di accusare i colpi.
«Non ce ne potemmo occupare più come prima, anche perché per due o tre anni dopo il rapimento fu un continuo di polizia e carabinieri con i quali dovevamo confrontarci. Riuscii a chiudere alcune trattative che avevamo all’estero. Eravamo una delle più grosse aziende vivaistiche d’Europa, anche tecnologicamente innovativa. Presenti nel nord Africa, nei paesi arabi e in buona parte dell’Europa, non avevamo concorrenti. Purtroppo, però, il rapimento di mio padre ci ha distrutto da tanti punti di vista. Abbiamo così deciso di dedicarsi alla coltivazione di fragole, ma quanto accaduto a Cernobyl nell’’86 ebbe delle ripercussioni non indifferenti perché, in una sorta di allarme generale, la gente comprava solo dalla distribuzione industriale pensando che i campi aperti fossero pericolosi. Si ventilò un’ipotesi di mutuo, ma gli arresti avvenuti alla Cassa di risparmio e la trasformazione in Cariplo fecero sfumare tutto. Oggi mi occupo di assicurazioni, completamente un altro mondo».
Quali sentimenti prova oggi rispetto a quanto accaduto alla sua famiglia?
«È come qualcosa rimasto incompiuto. Per non parlare del fatto che il suono del telefono mi fa venire la pelle d’oca. Sono stato accanto al telefono notte e giorno» – conclude Carmelo Bertolami – «in attesa che arrivasse una telefonata dopo il sequestro e, in un certo senso, l’attendo ancora oggi. Piano pano, dopo 40 anni, non dico che si dimentica, ma il dolore si attutisce. Lo dico sempre ai miei figli che all’epoca erano piccoli, Giuseppe aveva 7 anni e Claudia 4. Anche per loro fu un duro colpo perché erano legatissimi al nonno, un uomo mite e generoso con tutti. Anche loro partecipano alle iniziative dedicate al suo ricordo e mi rendono orgoglioso perché in loro rivedo mio padre. Saranno entrambi a custodire la memoria della nostra famiglia e a non farla disperdere mai».
In apertura una foto della famiglia Bertolami (foto gentilmente concessa dal figlio Carmelo)