Le infiltrazioni della ‘ndrangheta e il colpevole ritardo di Verona

Fonte: Verona In 

INTERVISTA – Silvano Filippi (SIULP): «Mentre si consentiva ad improbabili personaggi di appuntarsi al petto stelle da sceriffo e di mettersi al comando di scalcagnate truppe di improvvisati vigilanti armati di molta arroganza e poco acume, si sono lasciati senza risorse, umane e logistiche, gli apparati investigativi e gli uffici giudiziari, disperdendo fiumi di denaro pubblico per impiegare l’esercito nel controllo del territorio».

Mentre il nostro Paese entrava piano piano nella Fase 3 di questo periodo pandemico, la polizia, nelle sue articolazioni centrali e periferiche coordinate dalla Dda di Verona, portava a termine Isola Scaligera, operazione iniziata circa 27 mesi or sono contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nella provincia di Verona, con un’appendice in quella mantovana. 23 le ordinanze di custodia cautelare (in carcere e ai domiciliari), tre gli indagati obbligati presentarsi alla polizia giudiziaria e 15 i milioni di beni immobili sequestrati, ad ulteriore conferma che in Veneto la criminalità organizzata è stabilmente radicata in gran parte del territorio.

Di questo abbiamo voluto parlare con Silvano Filippi, sostituto commissario in forza alla Questura scaligera che lo scorso 27 marzo ha festeggiato i 35 anni di appartenenza all’Amministrazione della Pubblica sicurezza. Nato a Verona il 21 agosto 1965, Filippi è divenuto, il 4 maggio 2018, uno dei cinque componenti della segreteria nazionale del Siulp dopo esser stato per 11 anni segretario provinciale e per dodici segretario regionale del più rappresentativo sindacato della polizia di Stato.

– Filippi, dall’operazione Isola Scaligera sono passati pochi giorni, mentre sono passati almeno 20 anni dalle prime segnalazioni che la segreteria provinciale del Siulp fece per denunciare le probabili infiltrazioni mafiose nel territorio veronese. Per anni si è ritenuta la ‘ndrangheta come una forma di mafia folcloristica. C’è stata dunque una sua sottovalutazione? 

«Noi del Siulp non avevamo fatto altro che prendere atto di come il tessuto socioeconomico della nostra regione fosse congeniale per gli appetiti delle mafie. E a ben vedere i primi bocconi delle gustose pietanze che offriva il Veneto sono stati messi in bocca ai mafiosi dalla sciagurata normativa sul confino. Una legge che non a caso Nicola Gratteri, uno dei magistrati più impegnati sul fronte antimafia, ha definito come il peggior errore mai compiuto dal legislatore italiano. Per capire che questa pianta infestante avrebbe trovato terreno fertile non servivano raffinati analisti. Ma si è commesso un duplice errore: da un lato si è pensato che la – ampiamente sopravvalutata – superiorità morale delle genti venete avrebbe impedito il radicamento di organizzazioni mafiose; dall’altro si è sottovalutata la capacità operativa e l’intelligenza di criminali che l’immaginario popolare considerava, a torto, incapaci di concepire qualcosa che andasse oltre efferate manifestazioni di violenza».

– È stata una sottovalutazione dell’opinione pubblica, del mondo economico ed imprenditoriale, oppure delle istituzioni, dalle pubbliche amministrazioni agli enti locali?

«Il colpevole ritardo con il quale, finalmente, si comincia a capire quello che già era visibile da parecchio tempo se solo si fosse guardata la luna e non il dito, e cioè il consolidamento di quel metodo efficacemente rappresentato con la metafora del “mondo di mezzo”, è ascrivibile a molteplici responsabilità. La prima è quella della classe politica intesa in senso ampio, ad ogni livello. Non dimentichiamo che abbiamo avuto un ministro dell’Interno che ha preteso uno specifico spazio televisivo per negare il radicamento delle organizzazioni mafiose nelle regioni settentrionali. Per non dire delle sgradevoli reazioni con le quali illustri rappresentanti istituzionali hanno espresso il loro disappunto in occasione di mie recenti dichiarazioni relative alla pervasiva presenza mafiosa alle nostre latitudini».

– Però in Italia e a Verona non sono mancate le campagne a favore della sicurezza dei cittadini come antidoto alla criminalità…

«Più che di sottovalutazione parlerei di rimozione, e non proprio frutto di ingenuità. Da decenni le campagne elettorali sono scandite da slogan securitari, ma la concreta azione di contrasto alla criminalità ha sempre prodotto più titoli di giornale che effettivi risultati. Un disallineamento tra attese e risultati provocato a colpi di pacchetti sicurezza sferrati al solo fine di inculcare nella pubblica opinione il convincimento che la criminalità potesse essere combattuta mettendo nelle mani degli investigatori copie fresche di stampa della Gazzetta Ufficiale, infarcita di testi normativi di imbarazzante qualità, come attestano le vibranti scudisciate inferte dalla Corte Costituzionale. E mentre si consentiva ad improbabili personaggi di appuntarsi al petto stelle da sceriffo e di mettersi al comando di scalcagnate truppe di improvvisati vigilanti armati di molta arroganza e poco acume, si sono lasciati senza risorse, umane e logistiche, gli apparati investigativi e gli uffici giudiziari, disperdendo fiumi di denaro pubblico per impiegare l’esercito nel controllo del territorio. L’impressione è insomma quella che il contrasto alla mafia sia stato considerato non utile ai fini elettorali. Di fatto le forze di polizia sono state impegnate in via assorbente nella repressione della criminalità diffusa, fornendo la distorta impressione che la questione sicurezza fosse solo quella legata ai pusher ed ai topi d’appartamento».

– Una recente intervista a Nando Dalla Chiesa ha messo in luce le cosiddette zone grigie, tra legalità e illegalità. Cosa ha da dire a riguardo?

«La corruzione ha raggiunto punte impressionanti, senza che siano state adottate adeguate contromisure, normative e operative. E, come abbiamo imparato, la corruzione è il reato spia dell’infiltrazione della criminalità organizzata nella gestione della cosa pubblica. Dare la colpa esclusivamente ai politici, agli amministratori, ai parlamentari, sarebbe invero troppo facile. Gli elettori non possono certo chiamarsi fuori per il solo fatto di non essere complici. E così pure quegli imprenditori, e sono tanti, che per arginare l’incedere della criminalità mafiosa immaginavano sarebbe intervenuta una sorta di mano invisibile simile a quella che nelle teorie economiche a loro care assicura il bilanciamento tra domanda ed offerta. Sta di fatto che, grazie a questa indifferenza, anche nella nostra città personaggi venuti dal nulla sono approdati alle massime cariche amministrative con fiumi di consenso».

– Esiste un problema di professionalità e di competenze richieste per assumere responsabilità di governo in modo da arginare il fenomeno mafioso?

«Le scelte per la direzione di enti pubblici hanno premiato i fedelissimi, scelti non già perché in possesso delle competenze necessarie a ricoprire quel delicato e remunerativo incarico, ma proprio perché privi di competenze, e quindi facimente eterodirigibili. Un perverso intreccio di relazioni che, come hanno dimostrato decine di inchieste, è ben lontano dall’assicurare gli standard minimi di trasparenza che sono, in ultima analisi, un presidio irrinunciabile per la garanzia della legalità. Stiamo parlando di evidenti opacità che, tuttavia, al netto di qualche strepito giornalistico, non sembrano aver turbato più del dovuto i sonni dei veronesi. I quali, più che interessati a riflettere su questi perniciosi condizionamenti della vita pubblica, sembrano preoccuparsi solo dello stigma apposto alla città. Così replicando il mainstream che, come ho detto in precedenza, è all’origine dell’approccio negazionista. È allora appena il caso di ricordare a chi si preoccupa dell’immagine della città più che della sostanza dei problemi che ne condizionano lo sviluppo come, proprio il malinteso senso dell’onore, è quello posto alla base della filosofia mafiosa. O si modifica questa mentalità, o ben presto la linea della palma di sciasciana memoria varcherà inesorabilmente i nostri confini».

Antonio Mazzei