Lettere da Milano: la famiglia, la patria (di Franco Dionesalvi)

Lettere da Milano, di Franco Dionesalvi

LA FAMIGLIA, LA PATRIA

In questi giorni Milano è concentrata sul fashion, lunghe file per assistere alle sfilate di moda, capannelli per guardare, sfiorare, fotografare la modella famosa o lo stilista di grido. Per fortuna è una città in cui coesistono tante culture, tante dimensioni; così io me ne vado in un cinema a vedere “Un affare di famiglia”, di Hirokazu Kore-eda. Racconta di una famiglia che si forma intorno a un personaggio marginale; che raccoglie una donna che ha ucciso il marito per difendersi, e poi una anziana sola, una giovane prostituta, due bambini, e vivono tutti insieme. Lui fa il ladro, e insegna ai bambini quello che sa, ossia i suoi trucchi per campare. Fra tutti loro non c’è alcun legame di sangue, eppure vivono insieme, si instaurano rapporti autentici. Capaci di gioco e di amore. Le famiglie di sangue, che sono sullo sfondo, concepiscono invece solo rapporti di potere, di prevaricazione, di sofferenza. Non vi racconto altro, perché magari avrete voglia di vederlo.

Uscendo, a porta Venezia, c’è una modella elegantissima, che fa capannello. Ma ecco che si avvicina un giovane nero, ha in mano un panino al wurstel, e va verso i passanti gridando “Italiano, hai fame? Vieni, mangia il panino, mangia!” E’ la sua reazione all’ennesima provocazione che ha subito, all’ennesimo grido “Tornatene a casa!”. Perché abbiamo un ministro degli interni che è un ispirato educatore, riesce a convincerci che gli istinti più biechi che si aggirano nei meandri della nostra mente non sono merda, ma un programma politico.

Solo fino a pochi anni fa parole come famiglia, patria, razza ci facevano sorridere.

Mi torna in mente una storia, non so se la conoscete. C’era un uomo che amava parlare con la gente, sapeva dire cose che colpivano, ma affascinava soprattutto la gente semplice. Si era creato intorno a lui un gruppo formato da pescatori, ex-prostitute, mendicanti, storpi, ciechi, lebbrosi, apolidi, stranieri. Non aveva una casa, ma andava in giro, e parlava, insegnava. Una volta nel suo peregrinare arrivò nella città in cui era cresciuto, però si comportò come in tutti gli altri posti. Allora uno andò a chiamarlo e gli disse: “Non vedi? Lì c’è tua madre, lì ci sono i tuoi fratelli”. Ma quel maestro si girò verso lo stuolo che lo seguiva, coi quali non aveva nessun legame di sangue, e rispose: “Questa è mia madre, questi sono i miei fratelli”. Si chiamava, mi pare, Gesù.