di Stefano Milani
Fonte: Collettiva
Oggi il calendario non perdona. Porta in grembo una memoria che graffia e una rabbia che insiste. La banca squarciata nel 1969 resta lì, come un altare rovesciato su cui il Paese continua ad inciampare. Ogni volta che si prova a raddrizzare la schiena, quel boato torna a insegnare che la democrazia non è una scenografia per comizi ma un corpo vivo che pretende cura.
Eppure proprio mentre la ricorrenza pulsa, un’altra scossa attraversa il Paese. È la voce dei lavoratori che rifiutano una legge di bilancio che tratta la vita come una nota a piè pagina. Salari in dieta forzata, pensioni asciugate, sicurezza amputata, sanità in agonia, servizi ridotti a briciole. Di fronte a questo inventario di meraviglie governative, lo sciopero generale è tutt’altro che un capriccio. È fisiologia democratica.
Chi oggi scende in strada porta sulle spalle non solo la propria fatica ma la certezza che il lavoro è la prima architettura di una Repubblica che vuole essere all’altezza di sé. Lo fa con quella tenacia che somiglia un po’ alla Milano di cinquantasei anni fa. Ferita ma inflessibile. Colpita ma mai doma. Consapevole che ogni arretramento sociale è un regalo a chi sogna un Paese docile.
Il paradosso è che mentre questa Italia si muove, un’altra si racconta forte e spavalda su un palco amico. Ombre di patriottismo prêt-à-porter, applausi premontati, retorica a lunga conservazione. Una festa identitaria che confonde militanza con posa e storia con merchandising. Tutto molto festoso. Tutto molto distante da ciò che accade sotto i portoni delle fabbriche e dietro le saracinesche abbassate.
Così il 12 dicembre diventa uno specchio crudele. Da un lato le piazze che abitano la democrazia con i piedi. Dall’altro la passerella che la consuma con la voce. Da una parte chi rinnova la memoria di piazza Fontana difendendo diritti e lavoro. Dall’altra chi sale sul palco di Atreju immaginando che basti una luminaria per far sembrare solida una nazione che chiede semplicemente di essere ascoltata.









