(MARIO TOZZI – lastampa.it) – Sarebbe sbagliato pensare che l’imposizione di una pista di bob per Olimpiadi eventualmente prive di neve, dopo aver abbattuto centinaia di larici quasi secolari o secolari, che resterà infrequentata in futuro esattamente come quella piemontese, per uno sport che, in Italia, assomma, se va bene, una cinquantina di praticanti, sia un problema locale o determinato da errori casuali. Si tratta, a guardar bene, di un’ennesima spia di quanto stiamo disprezzando il nostro patrimonio naturale, una volta primo in Europa, e di quanto riduciamo tutto a una questione economica, cioè di soli denari che, come è noto, quando avremo abbattuto l’ultimo albero non saranno buoni nemmeno da mangiare.
È una questione che va tenuta insieme alla distruzione della fauna selvatica, all’incapacità di foraggiare e rilanciare i parchi e la tutela dell’ambiente, all’asservimento alle grandi opere inutili come unico rilancio dello sviluppo (che manco al tempo dei romani) e, infine, all’ignoranza dell’integrazione contenuta nei nuovi articoli 9 e 41 della Carta costituzionale. Questo complesso di problematiche viene risolto con una logica solo economica che mette in pericolo i diritti delle generazioni future, per questo possiamo definirlo come negazione di un avvenire sostenibile: chi pensa che possa esistere un’economia sana senza una biosfera sana è, nei fatti, un vero e proprio predatore di futuro.
La vicenda particolare della pista di bob è talmente palmare che non avrebbe bisogno di ulteriori commenti: c’è una pista già costruita in territorio austriaco a un’ora di auto, c’era la pista di Cesana (costruita nel 2005 in Piemonte, non utilizzata e vero monumento allo spreco) e si potevano valutare alternative ambientali, se ci fosse stata una valutazione di impatto che non c’è stata. Colate di cemento e taglio a raso dei boschi per un impianto dal costo approssimativo di 120 milioni di euro, che non sappiamo se sarà finito per tempo e che, nel caso, non potrà essere riconvertito a nessun’altra destinazione d’uso pubblica significativa, se non per la cinquantina di praticanti nostrani di bob. Nessuna pianificazione precedente, pur di assegnarsi i Giochi olimpici, nessuna previsione sull’uso futuro, perché tanto chi vivrà vedrà. E sono davvero penose le considerazioni che parlano di un manto boschivo in incremento in Italia negli ultimi decenni, perché un conto sono le foreste di pregio o primarie, un altro i boschi ripiantati o la macchia mediterranea libera, che costituiscono la massima parte degli incrementi.
Ma la stessa logica anima i finanziamenti che stanno piovendo anche in Appennino, in particolare in Abruzzo, dove si stanziano 200 milioni di euro a fondo perduto per nuovi impianti di risalita in un contesto che difficilmente vedrà nevicate tali da giustificarli. E, se le vedrà, non dureranno più di un paio di giorni, costringendo all’assurdo innevamento artificiale, con il poco invidiabile risultato di poter sciare solo lungo strisce strettissime in mezzo alle rocce, alle frane e ai torrenti. E le prossime Olimpiadi invernali rischiano esattamente gli stessi scenari, come stiamo osservando in tutto l’arco alpino. Incuranti della risalita dello zero termico a quote superiori a quelle delle cime più alte, sprezzanti della crisi climatica che ci sta colpendo al cuore, si continua a far finta di niente, predando il futuro dei nostri figli e nipoti cui non restituiremo mai indietro in condizioni migliori il mondo che ci hanno prestato.
Ma è la stessa logica del ponte sullo stretto di Messina, imperdonabile stornamento di miliardi di euro pubblici che andavano semmai investiti nel risanamento antisismico delle province di Reggio Calabria e di Messina, non nello stravolgimento del paesaggio, nell’incremento del dissesto idrogeologico e nello sfregio culturale: il ponte forse reggerà ma, quando arriverà il prossimo sisma, se resterà in piedi, unirà due cimiteri. Per non dire della rete dei trasporti di Calabria e Sicilia: un’autostrada sospesa che unisce due mulattiere che non siamo nemmeno sicuri riuscirà a ospitare la linea ferroviaria ad alta velocità. La logica delle varie pedemontane, tunnel, trafori, ma anche dighe, argini, briglie e poi pennelli, moli, scogliere artificiali, tutto il complesso di opere fondamentalmente inutili e spesso dannose di cui ci vogliamo dotare, illudendoci che si tratti di sviluppo. Quando invece si tratta di incremento del dissesto idrogeologico, degli effetti delle mareggiate, della siccità, insomma di predazione di futuro bella e buona, da cui difficilmente usciremo assolti dal tribunale delle generazioni future.
La determinazione assassina con cui si procede allo sterminio della fauna selvatica attraverso i suoi rappresentanti ecologici più importanti (e beneamati), come orsi e lupi, la mano sempre più libera lasciata a una pratica anacronistica e pericolosa come la caccia, che di sportivo non ha nulla, il pericolo che corrono decine di specie di viventi non umane, dalle api alle anguille, dagli anfibi agli alberi, non sono distanti da quella logica: un pianeta Terra impoverito di orsi e lupi non è salutare per i sapiens. Privo di insetti non è nemmeno vivibile. Più strade, più cemento, più asfalto non migliorano il nostro stato di salute, ma solo le tasche di pochissimi e negano il diritto a un ambiente migliore per chi ci seguirà.
E pensare che avevamo salutato con soddisfazione l’integrazione degli articoli 9 e 41 della nostra Costituzione, dove si aggiungevano termini che prima non c’erano: ecosistemi, natura, diritti dei viventi non umani, diritti delle prossime generazioni. Una Costituzione che si adegua alla crisi ambientale e comprende i limiti invalicabili che dovrebbe avere lo sviluppo ultraliberista dei mercati, ponendo uno stop addirittura al tabù della libera iniziativa, se non tiene conto delle questioni ambientali. Esattamente ciò che, invece, ancora accade sistematicamente in Italia. Però, in cambio, avremo un’altra cattedrale, costruita sopra il deserto del nostro futuro.