Massimo Cacciari: “Il premierato di Meloni e la mitologia decisionista”

(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it) – Chissà quale dèmone maligno convince i nostri giovani leader – prima Renzi e ora la Meloni – a tentare il suicidio con improvvide avventure di riforme istituzionali. Quella renziana era, se possibile, di impianto più generale e affrontava, pur a spizzichi e bocconi, nodi che davvero sono tra le cause del trentennale blocco del Paese: dal sistema bicamerale all’esistenza di Enti come le Provincie, chiaramente eliminabili con una articolazione razionale delle funzioni amministrative tra Regioni e Enti Locali. Questa della Meloni si concentra invece esclusivamente sul “simbolo” del Premierato. È un tributo alle mitologie decisionistiche. Almeno questo rimane delle promesse elettorali. Che possa farle dimenticare è altra questione. Che sia un calcolo intelligente lo dubito assai. Già si levano le alte grida di tutti i difensori della Costituzione. Già si affilano le armi per il prossimo referendum. È così certa la nostra giovane premier di superare l’eventuale prova? Mi pare che anche Renzi fosse partito col 40% dei voti.

Spero sia inutile da parte mia esprimere la noia che provo nei confronti di quelli che sacralizzano la Costituzione “più bella del mondo”. Il modo migliore per rovinare le repubbliche è quello di impedire la riforma del loro assetto istituzionale. Le repubbliche sono organismi che vivono fino a quando si trasformano. Il problema è che non ogni innovazione funziona, che le novità non sono belle in quanto novità. E, anzitutto, che in un sistema politico tutto si tiene, e se muti una parte devi mutare l’architettura dell’insieme. Ora, ciò che davvero riempie di filosofica meraviglia della riforma Meloni è il sovrano dispregio per questa logica di “sistema”. Forse un dio acceca coloro che vuole perdere, ma come è possibile non vedere la formidabile contraddizione che si introduce nel nostro assetto istituzionale tra un Presidente capo dello Stato, eletto dal Parlamento, e un Premier eletto direttamente dal “popolo sovrano”?

Un Presidente che mantiene sostanzialmente tutti gli straordinari poteri che la Costituzione gli attribuisce, da quello di capo delle forze armate a quello di garante dell’autonomia della Magistratura, in quanto presidente del Csm, nonché quello di potersi “appellare” alle Camere, ma esautorato da ogni possibilità di influenzare l’azione legislativa. Un pasticcio trasteverino bruttissimo. Le vie di mezzo, cara Meloni, assommano i vizi degli estremi, diceva Kant. Perché non seguire la via diritta? Non sarebbe un peccato. Elezione diretta del Presidente che costituisce il suo governo e ne è il premier. Di doppioni in Italia ne abbiamo già a bizzeffe. Non si segue la via diritta soltanto per debolezza politica e si crede che un pasticcio sia più digeribile di un bel piatto forte. Illusione da stenterelli. Ma poi, volendo una vera riforma in senso decisionistico, risulterebbe subito evidente la necessità di predisporre validi contrappesi. E i possibili sono noti da tempo: una riforma del Titolo V in senso autenticamente federalistico, affrontando finalmente in modo serio uno dei problemi storici del nostro Stato, che l’istituzione delle attuali Regioni ha reso ancora più grave, quello del rapporto tra Centro e “periferie”. Troppo difficile? Può darsi, ma senz’altro idea assente in forze per cultura politica prima che per interesse elettorale del tutto centralistico-romane come Fratelli d’Italia.

Il peccato mortale di questo disegno di riforma sta però altrove, nel credere o nel fingere di credere o nel volerlo dare a intendere che il problema-chiave che impedisce il funzionamento del nostro Stato stia nel suo “cuore” politico, dentro ai “palazzi di regime”, tra Quirinale e Palazzo Chigi. L’ultimissimo dei nostri problemi è quello del gioco Presidente-Premier, anche qualora venisse affrontato secondo una logica di sistema e non all’amatriciana. È la macchina amministrativa, nel senso generale del termine, che va sbloccata: semplificando, delegiferando, costruendo testi unici in tutti i capitoli essenziali dell’intervento pubblico. Abbiamo un sistema legislativo pachidermico, fatto di interferenze, sovrapposizioni, conflitti di competenze, prodotto di decenni di compromessi e aggiustamenti occasionali alla rincorsa di benefici elettorali a breve.

Abbiamo un personale della Pubblica Amministrazione che viene sempre più selezionato in base a lottizzazioni e spoil-system. E ce ne stiamo accorgendo drammaticamente in questi mesi: come incardinare i 220 miliardi di debito cortesemente concessoci dall’Europa (una volta, vero Meloni? Vero Salvini?) matrigna? A che punto siamo? Alzi la mano chi davvero lo sa. È sul rapporto efficiente tra Stato e Enti Locali, è sulla baracca della Pubblica Amministrazione (ivi compresa l’Amministrazione della Giustizia) che si fonda la realizzazione del PNRR. E non dovrebbe allora essere la sua riforma la priorità delle priorità? Che altro deve essenzialmente fare il nostro Governo se non definire gli obbiettivi del Piano e cantierarli con tempi sicuri? Su cos’altro sarà giudicato? Sulle sue capacità di arrestare il conflitto in Ucraina o in Palestina?

Forse prendiamo troppo sul serio la riforma Meloni. Forse siamo di fronte all’ennesima “distrazione di massa”, su cui i media cadono puntualmente. Sembra non esservi modo di frenare l’inflazione, i salari in termini reali sono diminuiti rispetto a quelli di trent’anni fa, cresce la povertà anche di chi lavora. Di fronte a ciò fisco e spesa continuano a non operare in termini di reale progressività. Troppo difficile, anzi impossibile per questo Governo non dico affrontare, ma parlare almeno (come fanno le cosiddette opposizioni) di politica fiscale e redistributiva. E allora? Allora facciamo discutere di Presidenza e di Premier, risolleviamo il solito polverone tra pseudo-riforme e conservatori a oltranza, che si son sempre tenuti per mano, da sempre perfetti alleati nell’impedire che i nodi del nostro sistema politico e amministrativo venissero tagliati per davvero.