di Davide Turrini
I principi della Costituzione non si toccano. Se si dovessero riassumere gli ultimi anni di pensiero e azione di Stefano Rodotà, si dovrebbe partire dalla presa di posizione per il No al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi. Di sinistra, laico, libertario, il giurista che non ha mai mollato la politica, protagonista di mille battaglie per l’estensione dei diritti dei cittadini, Rodotà è morto a Roma.
Aveva 84 anni, lascia la moglie Carla e due figli, tra questi Maria Laura, giornalista del Corriere. Calabrese di Cosenza, originario di una famiglia albanese della comunità arbëreshë del Cosentino, è stato anche per alcuni giorni, dal 18 al 20 aprile 2013, “il Presidente”. Ma solo nei sogni di una parte del Paese: nel caos istituzionale che anticipò la fine del primo mandato del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, il Movimento 5 Stelle sostenne lui nella corsa al Quirinale. Proprio quel Stefano Rodotà che dal 1979 al 1983 era stato deputato del Pci e poi dall’83 al ‘92 deputato della Sinistra Indipendente e ancora presidente del Pds per due anni, fino al 1993. Pareva il candidato “perfetto”, per fare ponte tra M5s, Sel e Pd, che in parte nei primi tre scrutini lo votò. Ma alla fine il Pd virò verso il bis di Giorgio Napolitano.
Iniziare da questa vicenda storica recente per raccontare uno studioso di diritto che teneva gli scritti di Hans Kelsen e Max Weber nella parte più alta e luminosa del suo pensiero giuridico, significa annodare i fili di una storia italiana strana, trasversale e impossibile: quella degli intellettuali apartitici con valori egualitari e progressisti schiacciati dal sistema asfissiante e identitario dei partiti di massa novecenteschi. Personalità come Altiero Spinelli, Carlo Galante Garrone, Gianfranco Pasquino, una sorta di “riformismo militante”, di “servizio civile” prestato alla politica attiva. Per Rodotà, dopo l’esperienza parlamentare degli anni Ottanta, quel servizio civile si sviluppò dal 1997 al 2005 nel ruolo di primo presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, quello che tutti conoscono come garante per la privacy. Così restituì linfa ad una branca del diritto che rinacque con l’avvento del web, soprattutto rispetto al problema dell’uso e della diffusione dei dati personali. E sempre sul tema della rivoluzione digitale già dal 2010 Rodotà si fece interprete dell’esigenza dell’eguale diritto di accesso al web “in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”.
Rodotà ha avuto nel suo Dna un complesso rapporto coi partiti politici italiani. Padre vicino al Partito d’Azione, uno zio apertamente antifascista, infanzia passata a leggere Balzac e ogni tipo di volume presente nell’immensa libreria di casa, Rodotà nei primi anni Cinquanta è a Roma a studiare legge. Passa molto tempo al circolo cinematografico Charlie Chaplin a guardare film assieme a Moravia e Pasolini, ma è il diritto (“quell’imponente e complicato edificio”) ad attirarlo e assorbirlo completamente. A Repubblica dichiarò: “Senza la forza il diritto è inerme. Senza giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla società”. Ed è così che si avvicina al Partito Radicale di Mario Pannunzio, che all’epoca dirigeva anche Il Mondo, ma quando negli anni Settanta Marco Pannella gli proporrà di candidarsi come deputato in Parlamento rifiuterà ben due volte (’76 e ’79), gesto mai digerito dal leader radicale. Dopo Rodotà si avvicinò all’area della Sinistra Indipendente, movimento politico di personalità di sinistra non iscritte al Pci.
Ma è dalla metà degli anni Novanta che l’attività di giurista si sviluppa soprattutto attorno ad una fitta pubblicazione di saggi sui temi dell’etica e del diritto che meritano di essere ricordati, sia per l’approfondita e chiara trattazione, sia perché disegnano ulteriormente il profilo intellettuale, culturale e valoriale di Rodotà.
Fonte: Il Fatto Quotidiano