Reset non è stato un processo. È stato un depistaggio. Un’operazione studiata, diluita, svuotata. Pensata per rallentare, filtrare, proteggere. Per salvare gli amici e sacrificare chi era già caduto. E dietro questa manovra c’è un nome solo: Nicola Gratteri. L’uomo che oggi, dai palchi che frequenta, continua a raccontare una verità comoda solo per sé.
Dice di aver letto le carte, visto i video, ascoltato le intercettazioni. Dice di aver firmato le richieste di custodia cautelare perché le prove c’erano, e lui le ha viste. Si dichiara “corresponsabile” dell’inchiesta Reset, come se fosse una medaglia. Ma il senso reale di quelle parole è un altro: Gratteri sta dicendo che se il processo è fallito, non è colpa sua. Le prove c’erano. Quindi, se sono saltate, la responsabilità è dei giudici che hanno scelto di ignorarle. È il suo schema narrativo: io faccio il mio dovere, sono gli altri che sabotano. Dice — tra le righe, ma neanche troppo — che esiste una regia occulta, fatta di giudici infedeli, che lavora per smontare sistematicamente le sue inchieste. Come se le assoluzioni non dipendessero dal vuoto probatorio, ma da un complotto per farlo apparire come uno che “fa scena”, ma non porta risultati. Una narrazione utile a lui, ma devastante per la verità.
Tutto inizia nel 2015. È l’anno in cui i pentiti Daniele Lamanna e Adolfo Foggetti, e poi altri ancora, iniziano a parlare. Raccontano la verità sul “Sistema Cosenza”: politica, massoneria, ‘ndrangheta, appalti, favori e voti comprati. I nomi sono pesanti: Mario Occhiuto, Katya Gentile, Enzo Paolini, Sandro Principe, Orlandino Greco. È la prima volta che un’indagine tocca in modo sistemico la politica calabrese. L’inchiesta coinvolge tre comuni: Cosenza, Rende e Castrolibero. Ma le ordinanze scatteranno solo per Rende e Castrolibero. Il “Sistema Cosenza”, vero epicentro dell’indagine, non decolla. Il fascicolo, aperto dal pm della Dda di Catanzaro Pierpaolo Bruni, finisce — con la sua promozione a procuratore capo di Paola — in un cassetto. E a Palazzo dei Bruzi possono continuare a dormire sonni tranquilli.
Con l’arrivo di Gratteri alla Dda, tutti si aspettano che l’inchiesta venga finalmente sbloccata. E in effetti il fascicolo viene recuperato e affidato al pm Camillo Falvo. Ma Gratteri impone una revisione totale: il lavoro fatto da Bruni, dice, “non era buono”. È solo una scusa. Una scusa utile a guadagnare altro tempo e, soprattutto, a fare pulizia. Falvo lavora seriamente, ascolta nuovi pentiti, raccoglie ulteriori riscontri. Ma il clima dentro la Procura cambia.
Sono i tempi dello scontro tra Gratteri e Otello Lupacchini, procuratore generale, che si schiera pubblicamente a favore di Eugenio Facciolla, altro magistrato scomodo, colpevole di indagare sulle connessioni tra politica, sanità e imprese amiche, in particolare sul gruppo iGreco e sul Pd renziano. All’epoca, iGreco godevano di amicizie pesanti: Ferdinando Aiello e Vincenzo Luberto. Un renziano e un pm della Dda. E si sa che Gratteri, verso i renziani — che lo volevano ministro della Giustizia — ha sempre avuto un occhio di riguardo.
Il risultato viene centrato: Lupacchini viene trasferito, Facciolla trasferito e declassato. E oggi totalmente assolto da quelle accuse infamanti. Ma le sue inchieste vengono fermate. I renziani restano intatti. E non è un caso se Gratteri affida proprio a Luberto l’inchiesta Lande Desolate: una manovra giudiziaria utile a colpire il centrosinistra ostile ai renziani — Oliverio, Adamo, Bruno Bossio — e a proteggere Mario Occhiuto. Infatti, le informative della Guardia di Finanza che inchiodano Mario Occhiuto sull’appalto di Piazza Fera/Bilotti spariscono nel nulla. Nessuno le considera. Nessuno le inserisce nel fascicolo. Gratteri le legge, ma lascia fare Luberto. E quando, a operazione completata — cioè eliminare politcamente Oliverio — Gratteri che conosce il gioco sporco di Luberto si tutela: denuncia Luberto alla Procura di Salerno per traffico di verbali. Prima lo usa. e poi lo scarica. Un paraculo.
Nel frattempo anche Falvo viene promosso procuratore a Vibo. Il fascicolo — di nuovo — viene chiuso. Poi riaperto. Ma con un altro nome: Reset. Il nuovo team investigativo è guidato da Vincenzo Capomolla e dal pm Vito Valerio. E sul territorio, Gratteri piazza il vicequestore Fabio Catalano, suo uomo di fiducia, con l’incarico di “seguire da vicino” l’indagine. Il lavoro investigativo riparte, i pentiti parlano, le informative si accumulano. Tornano i nomi: Mario Occhiuto, Katya Gentile, Enzo Paolini, Francesco De Cicco, Marcello Manna. Ma il metodo è sempre lo stesso. Masso-mafioso e preventivo. Il lavoro di Catalano viene fermato. Alcuni poliziotti — interni al sistema — iniziano a far circolare materiale privato e imbarazzante sul suo conto. È un ricatto. Un’operazione per neutralizzarlo. Catalano viene messo in difficoltà e costretto al trasferimento. E quando arriva il momento degli arresti, l’operazione “Reset” i nomi pesanti della politica cosentina vengono lasciati fuori. Gli unici coinvolti: Marcello Manna, già bruciato dallo scandalo Petrini; Francesco De Cicco, ex fedelissimo di Occhiuto che aveva osato mettersi di traverso. Due scelte chirurgiche, studiate per far sembrare Reset un’operazione “contro i colletti bianchi”. Un’operazione d’immagine. Un modo per dire che “qualcosa si è fatto”.
Il resto è fumo. Il processo si celebra, ma il cuore politico dell’inchiesta è già stato amputato. Le assoluzioni erano scritte. I politici sono intoccabili. I mafiosi condannati. I complici veri mai sfiorati. Ed è in questo contesto che Gratteri oggi si presenta come “corresponsabile”, vantandosi di aver firmato atti che lui stesso ha contribuito a svuotare. Dice: “Le prove c’erano, io le ho viste, ho ascoltato le intercettazioni”. E poi scarica tutto: “Ora tocca ad altri decidere se fare appello”. È la solita liturgia. L’ennesima dichiarazione studiata per mostrarsi come l’eroe isolato, colpito da un sistema che lo ostacola e non vuole combattere. Ma la verità è che Gratteri quel sistema l’ha diretto, l’ha manipolato, l’ha piegato alle sue logiche. Non ha mai voluto colpire davvero Mario Occhiuto, che ha protetto anche quando, nel 2021, partì l’inchiesta sulla Tenuta del Castello — oggi riaperta solo grazie al nuovo procuratore capo di Catanzaro, Salvatore Curcio. Anche lì, stessa dinamica: fascicolo aperto, congelato, silenziato.
Si dice che tre indizi fanno una prova. E Gratteri questo lo sa bene: ha lavorato solo per proteggere gli Occhiuto e i renziani dell’epoca. E qui gli indizi parlano chiaro:
Il primo è Sistema Cosenza, l’inchiesta rimasta bloccata per anni, rimbalzata da un ufficio all’altro, pur di non toccare Mario Occhiuto.
Il secondo è Lande Desolate, costruita per affondare Oliverio e risparmiare Occhiuto, nonostante le informative della Finanza parlassero chiaro.
Il terzo è l’inchiesta sulla Tenuta del Castello, che coinvolge Roberto Occhiuto, nata sotto Gratteri nel 2021, poi congelata e oggi riemersa solo per un motivo: con l’uscita di scena di Gratteri dalla Dda di Catanzaro, gli Occhiuto hanno perso le coperture. E i loro nemici — che aspettavano da anni — hanno capito che è il momento di presentare il conto. In questa storia l’unico vero colpevole è Nicola Gratteri.









