‘Ndrangheta e appalti, il vero problema è lo stato deviato

Racconto un episodio che pubblicamente non abbiamo mai raccontato.

E’ l’alba del 19 luglio del 2016 e la DDA di Catanzaro è nel pieno dell’operazione Frontiera. 58 arresti tra Cosenza e Salerno. I carabinieri del ROS e del comando provinciale  di Cosenza, con la regia di Gratteri e Luberto, mettono nel sacco la potente cosca Muto di Cetraro. E’ una operazione, come sostenemmo noi, contro i malandrini. Niente di nuovo sotto il cielo di questa terra. Di retate contro i clan in Calabria ne vediamo a centinaia. Catturato un boss se ne fa un altro, e il “gioco” tra guardie e ladri riprende sistematicamente. Succede sempre così. Nessuno lo può negare. I mafiosi malandrini non finiscono mai. Ne puoi arrestare quanti ne vuoi che come tutti sapete e vedete con i vostri occhi, il giorno dopo tutto ritorna come prima: si spaccia, si strozza, si chiedono le tangenti, si gestiscono gli appalti, come sempre.

Una operazione, come dissi, che se per un po’ di mesi mette tranquillo il territorio, in soldoni non risolve il problema mafiosità. Perché, come sempre, a mancare all’appello della retata è il livello politico/massonico. I principali mafiosi e responsabili dell’andazzo delle cose. Tutti li conoscono, tutti li additano, tutti sanno della loro esistenza, tutti conoscono le loro responsabilità, ma nessuno li va mai a prendere. Passano indenni da qualunque tempesta. Se fai una retata antimafia a Cetraro e tieni fuori a don Ernesto Magorno, non puoi definirla tale. Al massimo puoi chiamarla una retata anticriminalità.

Insomma una operazione necessaria sotto l’aspetto della “sicurezza”, ma che non incide niente sul “sistema mafioso” che governa il territorio. Che rimane operativo sul territorio continuando a riprodurre il malaffare in altre forme e magari con altri soggetti. Data anche la mutevolezza della composizione dei clan.

Nel reggino forse non è così, ma per le cosche della provincia di Cosenza, non essendo prettamente di stampo familistico, e quindi prive di legami di sangue al loro interno, la fedeltà non è obbligatoria. Per i picciotti passare da una cosca all’altra è un “valore” connaturato nella dimensione mafiosa che vivono i clan cosentini. Non si scandalizza nessuno se oggi sei compare con questo e domani sei compare con quell’altro. E’ una cosa normale. Specie in  situazioni non ben definite, sotto il profilo delle composizione dei clan, come quella odierna di Cosenza, dove la maggior parte dei grandi boss è al 41 bis, e le defezioni e i pentiti sono tanti. Riposizionarsi, in questi casi, diventa vitale.  E come è già successo in passato, gente che prima si sparava, oggi “convive” insieme nello stesso clan. Magari anche perché hanno un nemico comune. Più che la fedeltà e l’onore, vige l’opportunismo. Con chi mi conviene vado, oppure sto con il più forte del momento.

Il boss Franco Muto

Sono le 11 del 19 luglio del 2016, e la retata è terminata. Il procuratore Gratteri, insieme a Luberto e ai comandanti dei carabinieri, incontrano la stampa. I due sono entusiasti per i risultati del lavoro ottenuto e nell’esporre l’operazione Gratteri sottolinea l’impunità assoluta di cui ha goduto il boss Muto che ha imperversato, criminalmente parlando, su tutta la costa tirrenica indisturbato per oltre 30 anni. Scorrerie a cui loro hanno posto fine. E si dice perplesso per la sentenza del 19.3.1987 pronunciata dai Giudici della Corte di Assise di Appello di Bari contro la cosca Muto. In primo grado sempre a Bari ad essere assolti furono anche i due magistrati coinvolti (il procuratore della Repubblica di Paola Luigi Balsano e il sostituto anziano Luigi Belvedere). E poi, in appello, tutti i malandrini. I giudici di Bari negarono l’esistenza del reato associativo di tipo mafioso. Oltre ad assolverli tutti da ben 5 omicidi tra i quali quello di Giannino Losardo, ex vicesindaco di Cetraro del PCI e segretario capo della procura di Paola. Tutti a casa e con le scuse dello stato.

Giannino Losardo

Alla conferenza di quella mattina, al termine dell’operazione “Frontiera”, partecipò il direttore Carchidi che proprio sul punto sollevato da Gratteri, ossia i 30 anni di sguazzo di Muto, chiese a Luberto di chi fossero le responsabilità. Se c’è chi delinque, il compito di arrestarlo spetta ai magistrati, e se questo per 30 anni non è avvenuto, di chi è la responsabilità? Di mia nonna, di tua zia, o del magistrato e del politico corrotto che hanno offerto protezione e garanzie, in cambio di denaro, ai mafiosi? Politici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine collusi fino all’osso in tutti i traffici di Muto, rimasti come sempre senza condanna.

Ne seguì una sorta di battibecco al quale pose fine Gratteri ricordando ai due che quello in corso non era un seminario ma bensì una conferenza stampa.

Il tempo di ritornare da via Popilia, dove ha sede il comando provinciale dei carabinieri, alla redazione ed ecco che squilla il telefono del direttore. E’ un maresciallo dei carabinieri che comunica al direttore la volontà di Luberto di “scambiare” due chiacchiere con lui invitandolo a ritornare al comando provinciale dei carabinieri.

Il direttore accetta e ritorna in caserma. I due partono subito alla grande. Luberto, dopo qualche frase di rito, accusa il direttore di essere un populista e di fare una informazione ad effetto ma senza sostanza. E Carchidi ovviamente replica per le rime. Più che scambiare due chiacchiere, quella di Luberto pare essere una reprimenda al direttore. Finito lo sfogo, il direttore, capita l’impossibilità di comunicare con il PM, perché non risponde alla domanda su chi ha fatto sguazzare indisturbato Muto, si alza e se ne va.

A questo incontro, che raccontiamo per la prima volta, seguirono una serie di nostri articoli in cui ricordavamo al pm Luberto che se è vero che si impegna ad arrestare criminali e spacciatori, è altrettanto vero che ogni volta che esce il nome di qualche mafioso del PD lui gira sempre la faccia dall’altra parte. Quando si tratta di toccare il livello politico Luberto ha sempre la scusa pronta. Questo fino ad oggi rimane un dato. Che vedremo se sarà sconfessato dal tempo.

Con l’arresto di Barbieri nell’ultima operazione congiunta della DDA di Reggio e Catanzaro, il quadro che si delinea è chiaro e lo abbiamo scritto tante volte. L’intera economia calabrese è controllata dalla ‘ndrangheta che si è fatta classe dirigente. Non a caso in questa operazione l’obiettivo principale dei magistrati è  il livello imprenditoriale/mafioso. E va da se che dopo gli imprenditori mafiosi vengono i politici mafiosi, gli unici con la complicità di dirigenti e funzionari pubblici, a poter “indirizzare” un appalto.

Anche qui a Cosenza come nella Cetraro degli anni d’oro dello sguazzo di Muto, siamo di fronte ad un livello di impunità per politici e massoni mafiosi, che non solo vige da decenni, ma che è sotto gli occhi di tutti. E anche qui siamo di fronte ad evidenti coperture istituzionali. Che si traducono in persone fisiche. Di cui abbiamo fatto nomi cognomi e codici fiscali.

E’ chiaro che la storia avviata da Gratteri non può finire qui, ma quello che mi preoccupa (che poi è il motivo per cui vi ho raccontato l’incontro tra Luberto e il direttore Carchidi) è se Gratteri ripeterà o meno gli stessi “errori” dei suoi colleghi, che tanto ha criticato, che hanno rappresentato l’accusa a Bari nel processo “Muto”. Se permetterà ad altri magistrati di continuare a coprire altri magistrati collusi. Che a loro volta coprono politici mafiosi e massoni accriccati. Così come è avvenuto durante il primo processo “Muto”.

La procura di Paola

Insomma, vogliamo capire se Gratteri coprirà, quando scoperchierà il pentolone del malaffare cosentino, le evidenti responsabilità della procura più corrotta d’Italia, cioè quella di Cosenza. Alla quale era legatissima anche la procura di Paola con tanto di prove documentali. Senza annoiarvi, vi diremo soltanto che il quartier generale del clan Muto ovvero il night-ristorante “La Perla” di Cetraro era di proprietà del fratello del procuratore di Cosenza Oreste Nicastro. Era insomma il crocevia del patto scellerato tra mafia e stato. Questa è la verità.

Vogliamo capire se Gratteri coprirà i funzionari di polizia e gli ufficiali dei carabinieri che fanno il doppiogioco. Se chiamerà alle proprie responsabilità il procuratore, il prefetto, il questore, gli avvocatoni collusi, senza i quali né Muto né Lanzino né chicchessia avrebbero potuto fare quello che hanno fatto. E’ la mancanza del “fare” come conseguenza al suo “dire”, che spesso manca nell’azione di Gratteri, che mi preoccupa. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Se esiste l’impunità è perché esiste la commistione. E se Gratteri nell’agire su Cosenza dovesse limitarsi a fare quello che ha fatto nell’operazione Frontiera, cioè arrestare solo qualche malandrino, e qualche “colletto bianco” come ancora li chiama Spagnuolo, vorrà dire che nulla cambierà e che tutto il suo parlare di ‘ndrangheta che si fa classe dirigente, è solo uno slogan da lanciare nelle sue manifestazioni, per vendere qualche copia in più del suo libro. E le accuse che spesso muove ai magistrati corrotti, nei suoi convegni, sono solo retorica populista, la stessa che ci rimprovera Luberto, giusto per darsi un tono e distinguersi dalla massa.

La buona fede di Luberto presto sarà messa alla prova e capiremo se il senso di quell’incontro era una difesa della Giustizia che si adopera secondo legge e coscienza, oppure era un atto intimidatorio di uno della paranza.

GdD