Padre Anselmo, il gesuita calabrese col pugno chiuso che saluta i giovani del Labas

di Vito Barresi

Un’immagine felice come ai tempi dell’antica Cuba di Fidel, nei giorni gloriosi del grande Ernesto, mitico comandante di gioia e rivoluzione. Dal balcone di via Guerrazzi, un sentiero ‘cult’ che s’incunea nella geopolitica urbana della vecchia Bologna (in qualche modo città impigrita da qualche tempo deconcentrata rispetto ai ritmi del mutamento sociale e politico) che si rimette in marcia dopo una lunga ed estenuante pausa estiva, ecco la barba di un anziano gesuita, sempre vivace e sorridente, che saluta i manifestanti in pacifico rientro, con tutta l’orgoglioso gesto del pugno chiuso. Non ci viole tanto a capire che la scena non è il remake di una polaroid ingiallita, messa tra i cimeli antiquari dell’ideologia comunista e la Compagnia di Gesù ma è qualcosa di più e di originale. Anzi di local, l’antropologia di una territorio umano come quello bolognese, dove il contraddittorio e magmatico delle cose e dei pensieri, in fondo alla strada, è sempre il primo piatto della buona trattoria.

Nel penultimo sabato di una lunga stagione di torrido caldo, non siamo in vacanza ai Caraibi, tra il golfo del Messico e l’Atlante, ma in una via memoria dei movimenti bolognesi, dove defluisce lentamente un lungo torpedone di manifestanti, quelli che hanno finito di sfilare al corteo contro lo sgombero dei centri sociali.

Padre Anselmo, il gesuita pittore e missionario, partito da giovane nel viaggio verso una di quelle due Americhe che stanno al cuore di Francesco, il papa venuto dagli altri mondi, che il primo di ottobre sarà in visita proprio qui a Bologna, ha ancora tutto il look dell’operaio impegnato e colto nella praxis delle lotte e delle vertenze sindacali, esperienza operaia vissuta non solo in Italia ma anche nel Brasile di fine anni Sessanta, ormai più che novantenne ha aspettato tutto il pomeriggio che la manifestazione per il Labas promossa da varie sigle civiche, passasse sotto la sua casa per salutare i partecipanti.

‘Nzermu, aiutato da una ragazza e da un ragazzo di colore, sta ben in piedi a guardare un mondo che cambia e passa in fretta ma sempre con le sue eterne ingiustizie, le guerre, le lotte sindacali, i migranti, i clandestini, i sans papier, i profughi alla ricerca di libertà e riscatto, la moltitudine personalizzata che mano a mano in questi ultimi decenni è diventata il nuovo sfondo della sua arte, esposta in un’edicola in via Guerrazzi, proprio come un tempo lo furono il fondale leggendario delle lotte bracciantili e contadine del Sud, nella sua terra d’origine, la Calabria.

Ogni giorno, al vespro, dalla finestra di un palazzo dove ha sede la centrale gesuita emiliana e bolognese, il cuore pulsante della Rete Loyola, nel nord Italia. Una postazione di servizio dove i gesuiti di Bologna propongono percorsi di spiritualità per orientare la propria vita, un luogo antico con le sue coorti e stanze interne dove si avverte l’eco e l’enfasi del messaggio di Francesco di Roma secondo cui, parole dette in parallelo proprio in Colombia che calzano alla bisogna del caso Labas e cioè che “non possiamo essere cristiani che alzano continuamente il cartello proibito il passaggio, né consentire che questo spazio è mia proprietà, impossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio

A questa altezza che avviene quel che forse ti aspetti, varrà per dire che la congiunzione oceanica di una comune geografia di speranze e di fede, una lunga storia di militanze e battaglie terzomondiste, sbagliate quanto si vuole in certi casi è possibile.

Come in questo dove un pomeriggio d’estate a settembre in cui si vede sfilare la ‘Little Bo’ dei movimenti e del sindacato, piccola città bastarda posta, come un quartiere etnico a New York, una enclave antropologica che sintetizza alcune titaniche ideologie del Nove Ottocento con l’ansia di un nuovo progetto politico che purtroppo realisticamente non c’è.