Perché odiare il popolo russo, come se fosse colpevole degli orrori di Putin?

(Domenico Quirico – la Stampa) – Lo si sente, cresce, aleggia attorno a noi, guadagna terreno ogni ora, ogni giorno di guerra: l’odio. All’inizio si precisava, anche da parte degli ucraini che pure erano aggrediti e percossi: questa è la guerra di Putin, lui l’ha voluta, lui la inferocisce. Non è la guerra dei russi con cui siamo fratelli, in divisa contro di noi ci sono gli ingannati o i costretti, offriamo loro quando si arrendono un pezzo di pane. E per questo coraggio li abbiamo giudicati, gli ucraini, ancor più meritevoli, avvolti in un grande drappeggio di sventura e di pietà. Tutto è rapidamente finito in briciole come le città e le illusioni di tregue e negoziati, l’odio affligge tutto il mondo di questa guerra bruciante e brutale.

Adesso è diventata la guerra dei russi, contro i russi: primitivi, asiatici, barbari, orda che uccide, bombarda, stupra, saccheggia, lupi voraci, mostri, antiuomini. Le parole sono sempre il segno: ormai si vive nell’odio che come una soluzione satura si cristallizza. Il furore che all’inizio è arma per combattere e resistere è scivolato in altra cosa, accecato diventa a sua volta disumano. Ecco: il percorso è quasi completo. Non c’è più distinzione. L’odio non è un errore o un incidente di analisi.

È un desiderio profondo di distruggere, svela un abisso a fior di pelle, non è dietro di noi ma attorno a noi, in noi. È una negazione sovversiva che a poco a poco travolge anche chi è spettatore della guerra, e gli europei lo sono: vogliamo attraverso questa discesa agli inferi nascondere il senso di colpa per esser solo questo e in fondo esserne soddisfatti. È singolare e fa riflettere il fatto che il principale abitatore dell’occidente e dell’Europa del terzo millennio, l’odio, con la sua ancella la paura, non sia stato in fondo oggetto di ampie analisi.

Forse perché non si vuole tornare con la mente a esperienze umilianti e l’odio lo è. E poi esistono molti tipi di odio di cui ognuno richiederebbe una trattazione. Un po’ come fa il botanico quando si accinge a una classificazione particolare. Ci scopriamo a parlare e pensare in modo primitivo perché siamo costretti a difenderci contro qualcosa che prima di tutto è primitivo, la guerra. Così la etichettatura animalesca che prima colpiva solo il burattinaio di questo sanguinoso disastro si estende a un popolo intero: che è colpevole, perché non si ribella, non getta le armi, non rinnega e non si rinnega, perché non sciopera rifiutandosi di cooperare con il leader.

Perché ci costringe con la sua inazione a rivestire panni che avevamo riposto in soffitta come anacronistici: la guerra le bombe combattere schierarsi resistere. Russi dannati, combattete per Putin come i tedeschi hanno combattuto per Hitler! La colpa che per il diritto è rigorosamente individuale diventa collettiva. È l’infausto meccanismo della decimazione, della vendetta. Una specialità delle tirannidi.

È quello che Putin forse immaginava e voleva: il suo volto enigmatico sparisce a poco a poco dietro la condanna di tutto e di tutti, la volontà di linciaggio forma, anche in coloro che in Russia forse dubitavano e si astenevano, il legame sociale per eccellenza, quello che nasce dal sentirsi umiliati e vilipesi, accusati e minacciati di punizioni nel mucchio. Stiamo, temo, scivolando su questo pendio insidioso.

Il delitto dell’aggressore non ci appare più come trasgressione, come caso da imputare a un uomo e al suo delirio di potere, ma come forma esistenziale, come comportamento naturale di un popolo intero nei confronti di altri essere viventi, l’aggressione, il delitto come forma del loro mondo. Il processo ai colpevoli (teorico perché prima bisogna sconfiggerli, catturarli per applicare la giustizia, molto ambigua, dei vincitori) che prima riguardava il pugno di cortigiani e complici diretti di Putin, alcune centinaia di persone, ora si allarga: gli ufficiali, i soldati che non hanno disobbedito, quelli che nelle retrovie non hanno preso le distanze, i silenti, i non eroi: tutti.

Punire, togliere la voglia di riprovarci, rieducare questi popoli eternamente asiatici e aggressivi verso la nostra “polis” perfetta. Siamo al punto chiave del dialogo tra Creonte e Antigone. «Il nemico non diventerà mai un amico neppure dopo la morte» dice il dittatore che nega ai colpevoli perfino il diritto alla sepoltura. E Antigone replica: «Non sono fatta per vivere con il tuo odio».

Ecco. Questo è esattamente quello che ci deve separare dall’aggressore: porre dei limiti all’inaccettabile, mettere in guardia dal pericolo mortale che c’è nell’unificare nella colpa, annunciare il peggio che può ancora accadere senza temere di essere accusati come seminatori di zizzania, di dare una mano “oggettivamente”, terribile avverbio che ha macinato la vita di milioni di uomini, al nemico. Putin e i Califfi gettano nella mischia non solo divisioni corazzate o kamikaze; la posta in gioco è il dominio dello spirito, mobilitano l’odio, un tesoro raro e prezioso, utile al servizio del loro aggrottarsi di ciglia.

Vogliono contagiare le menti prima ancora che occupare territori, imporre l’irrimediabile: noi e loro indissolubilmente separati e nemici. Apparentemente nulla è mutato in questi ventinove giorni di guerra nella nostra parte del mondo, la gente si muove lavora dà esami si ama fa sport applaude gli oratori che invitano alla ennesima resistenza contro la nuova sventura.

Eppure c’è qualcosa di inafferrabile nell’atmosfera, un fluido collettivo ed è cattivo, un’aura fatta di forza e di rancore, di paralisi interiore, di furia e avversione contro “il nemico”. A poco a poco le marce della pace spariranno, gli inviti a distinguere, a non farsi travolgere diventeranno eresia, Come se oppressi, impauriti ci vendicassimo dei colpevoli emettendo liquido nero come la seppia colpita. Di che diavolo ha mai bisogno l’uomo per non commettere gli stessi errori?