Rinascita Scott. Ferrante, la “Banca d’Italia della ‘ndrangheta”. I suoi tentacoli e i suoi rapporti con l’editore vibonese

Le telefonate tra il “tycoon” vibonese e Ferrante, definito da Mantella la «Banca della ‘ndrangheta»

In Calabria (e non solo) lo sanno tutti che il famoso editore della “corazzata” televisiva LaC è un soggetto borderline e legato a doppio filo alle ‘ndrine vibonesi. In Calabria (e non solo) lo sanno tutti che il suo nome figura in almeno tre inchieste della Dda di Catanzaro. Ma in Calabra (e non solo) tutti sanno anche che il furbo editore ha fatto di tutto per entrare nelle “grazie” dell’ormai ex procuratore Gratteri e così “regalando” un bel corso di alta formazione al suo intimo amico Nicaso non solo ha risolto il problema ma ha portato in giro per la Calabria (e non solo) il magistrato alla stregua di una “Madonna pellegrina”. E così non solo si è garantito l’impunità ma ci ha tirato su anche un bel po’ di soldini.

In attesa che il furbo editore apra anche una sede a Napoli, in maniera tale da scongiurare eventuali crisi di rigetto dei collaboratori di Gratteri o del suo sostituto, è chiaro che gli atti rimangono e per fortuna c’è anche qualcuno che li può ricordare.

Tempo fa in molti scrissero a lungo del rapporto tra l’editore e l’ex consigliere regionale del Pd Pietro Giamborino, che fu subito “scaricato” a mo’ di “uomo nero” quando incappò nelle inchieste di Gratteri.

MADULI, LAC E I CLAN DI VIBO (https://www.iacchite.blog/massomafia-maduli-e-i-clan-di-vibo-su-giamborino-garantisco-io/)

E non molto tempo fa il Corriere della Calabria aveva scritto un pezzo molto incisivo anche sul rapporto tra Maduli e un altro soggetto importante della massomafia ovvero l’imprenditore Gianfranco Ferrante, definito dal pentito Mantella la “Banca d’Italia della ‘ndrangheta”. Lo riportiamo di seguito.

Se il sostegno per Giamborino è motivato su basi politiche, Maduli stringe un rapporto di natura commerciale con un altro politico della zona, Salvatore Bulzomì, in cerca di conferma tra i banchi del consiglio regionale dopo una prima elezione maturata nel 2010 tra i ranghi del centrodestra. È questo rapporto a evidenziare un legame che rischia di essere imbarazzante per il “tycoon” vibonese. Dagli atti riversati nell’inchiesta “Rinascita Scott” emerge infatti che Bulzomì sarebbe stato “raccomandato” a Maduli (non indagato nell’inchiesta) da Gianfranco Ferrante, proprietario del “Cin Cin bar”.

La figura di Ferrante, con il passare del tempo (e con il procedere dell’inchiesta) si colora di sfumature inquietanti. Secondo diversi collaboratori di giustizia l’imprenditore avrebbe intrattenuto rapporti con le cosche delle Serre vibonesi, con il clan Lo Bianco-Barba e con i Mancuso, centro attorno al quale gravitano tutte le costellazioni criminali della Provincia. Per Andrea Mantella, uno dei pentiti chiave dell’inchiesta, Ferrante era una sorta di «Banca d’Italia della ‘ndrangheta»: «Prendeva i soldi anche dai Mancuso e poi finanziava la rete di usurai», ha spiegato in aula il collaboratore, secondo il quale l’imprenditore sarebbe stato «funzionale per sostenere la malavita nel Vibonese».

Il “caso Bulzomì”: la pubblicità elettorale non pagata

Salvatore Bulzomì

In una nota del 2 gennaio 2015 indirizzata dai carabinieri di Catanzaro alla Dda si fa riferimento a «eterogenei rapporti d’affare» tra Ferrante e Maduli. Il “caso Bulzomì”, d’altra parte, evidenzia una conoscenza diretta tra i due. E mette in luce una richiesta dell’editore al titolare del bar. A fine dicembre 2014, Maduli contatta Ferrante e gli dice: «Mi avevi raccomandato… eh… lo abbiamo cercato di trattarlo bene a coso… a Bulzomì… fatto… anche se poi era debole di suo… però su Vibo comunque è stato sempre quello più votato». La comunicazione si interrompe e riprende qualche minuto più tardi, quando Maduli affronta il cuore della questione. «Ti volevo dire a Bulzomì gli abbiamo fatto un super lavoro (…) eh, l’unica cosa siccome i politici praticamente, per regola questo qua, pagano sempre prima delle elezioni e infatti così a Vibo pure hanno pagato tutti quanti, ora con lui abbiamo fatto un trattamento diverso perché è un amico, insomma, è una persona… è una persona a modo, eh… però siamo rimasti che dopo le elezioni chiudeva ‘sto fatto, mo’ la gente mi sta chiamando dice sai, mi sta rimandando di giorno in giorno». Ferrante si informa sull’ammontare del debito del politico e Maduli chiarisce: «È poco, parliamo di una fesseria che lui è che poteva fare tanto, capito? Ora non mi ricordo però è poco guarda, è poco rispetto a quello che hanno fatto altri».

L’imprenditore del “Cin cin bar” si ripropone di parlarne con il politico che descrive come «un ragazzo serio, ha qualche problemino, che vuoi ehe… però voglio dire stati tranquillo, non ti preoccupare». «Senza che lo chiami apposta – risponde Maduli –, se lo vedi gli dici “oh Salvatore glielo chiudi quel conto a Pubbliemme” ecco… no, ma sai perché… che tra l’altro con i politici io volessi regalarglielo, faccio un esempio, una cosa mia, non glielo posso neanche fare, perché le elezioni regionali sono sottoposte al Corecom e quindi abbiamo una tracciabilità al 100% di tutto». Il ricorso a Ferrante come tramite per una sorta di “moral suasion” nei confronti del candidato insolvente pare giustificato da un altro passaggio contenuto nelle note dei carabinieri, per i quali come Ferrante avrebbe manifestato «una certa “supremazia” nei confronti del consigliere regionale Bulzomì, non solo rimproverandolo, in due distinte occasioni, per il ritardo» a un appuntamento «oppure per non averlo chiamato, ma anche “convocandolo” presso la sua abitazione per poterci parlare».

Il caso Bulzomì non si risolve come auspicato. Qualche giorno dopo Maduli contatta nuovamente Ferrante e i toni (nei confronti del politico) sono più accesi. «No, che chiamavo Salvatore eeee e poco… poco cioè… mi sono dovuto incazzare perché praticamente mi fa fare continue telefonate a me, all’amministrazione, dalla gente». «Ahhh, ma non ha sistemato ancora?», chiede Ferrante. «Nooo – è la risposta – ma gli ho detto “Salvatore siamo amici riconosciuti… cioè praticamente non mi stare… con il coso… “perché praticamente mi fa fare telefonate a destra e sinistra… “io tempo da perdere non ne ho” gli ho detto io… “Salvatore mio… mi fai fare brutta figura… io mi metto a disposizione con te però non mi devi far chiamare dagli altri”». Maduli sottolinea la cosa è «aperta» da un mese. E Ferrante si propone nuovamente di risolverla: «Adesso lo chiamo io… lo chiamo io», al che l’editore prova a bloccarlo («lascialo stare che adesso l’ho chiamato io»). C’è sempre la politica di mezzo. Una volta per guidare (o almeno provarci) Giamborino sullo scranno più alto del Comune di Vibo Valentia. Nell’altro caso per recuperare quanto dovuto da un aspirante consigliere regionale. Nel laboratorio-Vibo quest’ultima attività passa attraverso contatti con il titolare di un bar che, per un pentito, è la “Banca d’Italia” dei clan vibonesi.

Per Ferrante, la Dda di Catanzaro ha chiesto una pena di 26 anni di carcere. La sentenza di primo grado lo ha riconosciuto colpevole e condannato a 20 anni di reclusione.