Studiare i call center in Calabria: il caso Phonemedia e la rassegnazione

Quando il ricatto si confonde con riscatto. Studiare i call center in Calabria

a cura del CENTRO SOCIALE SPARROW

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

Il numero di operatori dei call center presenti in Calabria si aggira intorno alle 10.000 unità; stima, questa, approssimativa, visto l’elevato livello di turnover presente in questo settore. Il cuore principale – e l’area regionale originale – dei call center calabresi è Catanzaro, capitale amministrativa del lavoro in cuffia. Tuttavia, la città in cui il lavoro dei call center genera il maggior numero di profitti è Cosenza.

Ad oggi, infatti, la Cosenza Valley risulta essere una vera e propria miniera d’oro per le ditte nazionali del settore, soprattutto per via del flusso di studenti-neo-laureati-precari che orbitano attorno all’Università degli studi della Calabria, situata sulla collina di Arcavacata di Rende. Attorno al centro cosentino e di Rende, più che altrove si trovano le condizioni ‘ideali’ per imporre contrattazioni atipiche in maniera totalmente selvaggia, pur di aumentare i profitti.

Come avviene che Cosenza si stia caratterizzando come un luogo di enorme concentrazione dei call center, anche rispetto al resto della superficie nazionale?

Una delle chiavi di lettura più importanti è la presenza dell’Unical con i suoi 35mila studenti iscritti. La parola d’ordine sarebbe riscatto sociale ma in realtà si tratta solo e soltanto di un ricatto occupazionale, realizzato ovviamente attraverso la solita retorica: sottosviluppo- aiuti-finanziamenti pubblici.

TERZA ED ULTIMA PUNTATA

Invisibilizzazione più che assenza di conflitto: il caso del call Center Phonemedia di Catanzaro

La vertenza Phonemedia di Catanzaro risulta essere sul piano nazionale (insieme all’esperienza del call center Atesia di Roma) tra le pochissime esperienze di lotta radicale che ha prodotto una lunga occupazione del luogo di lavoro, riuscendo di, fatto a “bloccare la fabbrica”.

Parlare di tale esperienza ci permette di indagare più da vicino quali siano le ragioni, i bisogni e le modalità di conflitto che permettono alla lotta sia di espandersi che di generare mutamento e miglioramento di condizioni di lavoro e di vita. Al fine di proporre una riflessione più approfondita, è necessario sgombrare il campo da un errore analitico: questa lotta non è stata condotta in nome della “difesa del lavoro” né è stata individuata come lotta contro le “condizioni di sfruttamento”, bensì è stata una sacrosanta battaglia per il reddito sganciato dal lavoro!

È questo quello che salta di più agli occhi, se si produce una analisi postuma della vicenda ed è questa la chiave che consente di identificare quella lotta come vincente, seppur si conclude con il risultato della cassa integrativa per tre anni per la maggioranza, neanche tutti, gli ex-operatori di quel call center. Inoltre, può essere utile chiarire che la parola d’ordine “reddito”, così come è declinata dalle diverse soggettività militanti, non è entrata direttamente nel lessico rivendicativo dei soggetti in conflitto; tuttavia, la lotta che autonomamente hanno prodotto è stata senza dubbio mirata al conseguimento di denaro più che a riavere il posto di lavoro.

La battaglia degli operatori calabresi è iniziata nel gennaio 2010 quando, dopo mesi di arretrato nei pagamenti, questi hanno deciso di occupare il call center, pretendendo le mensilità in ritardo. Neanche un mese dopo, l’azienda, nata a Sud con i soldi della legge n. 488, dichiarerà fallimento, licenziando 1500 operatori nella sola Catanzaro e 5200 in tutt’Italia (http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/02/07/news/phonemedia_dipendenti_tutti_licenziati-29465751/).

Mentre sul piano nazionale stentano a partire gli ammortizzatori sociali, in Calabria grazie alla radicalità espressa nel conflitto e grazie all’uso che i lavoratori hanno fatto del sindacato, costringendolo alla lotta, la Regione si fa garante con il governo e gli ammortizzatori sociali vengono immediatamente erogati.

La lotta condotta durante i 4 mesi di occupazione del call center pone subito al centro la questione del reddito, nessuno dei lavoratori, infatti, è disposto a chiedere una reintegrazione sul posto di lavoro e i sindacati sono costretti, loro malgrado, ad agire su questo piano rivendicativo, nonostante politicamente contrari. Va anche sottolineato come siano stati gli stessi operatori a dettare i termini e i tempi del conflitto, producendo manifestazioni non autorizzate e ripetuti blocchi del traffico in tutto il territorio di Catanzaro.

Se, da un lato, si analizza il livello di radicalità che si è espresso nella lotta e, dall’altro, la rapidità con la quale la stessa è andata in riflusso, si può giungere alla conclusione che la vera partita per chi era convolto in prima persona non è mai stata quella di difendere un posto di lavoro detestato e sotto pagato, bensì quella di ottenere 3 anni di salario garantito e scappare via il prima possibile dal call center.

Vertenzialità sindacale

Nonostante l’internità che molti militanti hanno dentro tale situazione lavorativa, non si è mai riusciti a produrre esperienze significative di lotta all’interno della Cosenza Valley. Spesso, anche minime battaglie di carattere vertenziale hanno trovato un netto rifiuto e totale indisponibilità da parte dei lavoratori, dimostrando come il classico approccio di carattere sindacale non riesca in nessun modo a produrre una minima disponibilità alla lotta. I fattori che abbiamo esposto finora hanno di fatto pacificato quella che, in ogni caso, risulta essere attualmente una vera propria polveriera sociale pronta ad esplodere. Infatti se si ascoltano le voci che si intrecciano all’interno delle pause caffè, nei micro istanti che passano tra una telefonata e all’altra o all’uscita dei turni, ci si rende conte della presenza di una cospirazione invisibile costante contro la dirigenza, i team leader o chiunque altro venga percepito come parte della governance aziendale. Sembra evidente a chi ci lavora all’interno che tale malcontento e destinato a distruggere queste fabbriche tardocapitaliste, anche se, spesso, al meccanismo della lotta e della resistenza si preferisce quello dell’esodo.

Il reddito come strumento di rottura e ricomposizione

La produzione di conflitto intorno alla questione dal reddito, declinato come riappropriazione di case, di mobilità, di welfare, sottratto nell’indisponibilità attuale del ripianamento dal debito, unito ad una profonda lotta, capace di sottrare reddito diretto alla finanziarizzazione, risulta essere ad oggi, il piano politico su cui agire una ricomposizione capace di tenere insieme sia tutti i microcosmi che gravitano intorno al knowledge work sia tutti quei settori del proletariato (spesso migrante) impiegato nelle forme più tradizionali di lavoro.

Per sgombrare il campo da qualsiasi ipotesi riformista (anche se radicale), le battute conclusive sono presentate come spunti di avvio di nuove analisi concernenti i punti finora sollecitati. Ribadiamo che il reddito, in quanto vertenza, non può che essere concepito solamente come un fine transitorio, una parte della lotta che ponga in essere le condizioni per riconoscere, rifiutare e porre resistenza davanti a qualsiasi regalia, di stampo caritatevole e paternalistico, che possa provenire dall’attuale governance europea e nazionale della crisi e dell’emergenza.

Non vogliamo briciole per alleviare la miseria, per sedare il conflitto e il dissenso sociale attuale, calate dall’alto di qualche istituzione. In questo passaggio, con la messa in gioco di singolarità, non più intenzionate a delegare, è possibile la produzione, dentro e oltre le dinamiche di ricomposizione sociale, di meccanismi capaci di rompere quell’auto-narrarsi di un meridione “sottosviluppato”, utile soltanto a garantire forme di colonialismo tardo-moderno.

Grazie al CENTRO SOCIALE SPARROW

3 – (fine)