Gratteri procuratore a Milano sarebbe perfetto: ecco perché (di Tiziana Maiolo)

di Tiziana Maiolo

Fonte: Il Riformista

Lo vedrei bene Nicola Gratteri seduto nel luminoso ufficio là in fondo al corridoio del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Procuratore capo. Successore di Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Edmondo Bruti Liberati, Francesco Greco. Sarebbe una variabile impazzita, e ne farebbe andar fuori di testa parecchi, se il Csm avesse la forza e la voglia di dimostrare che i metodi del “Sistema” denunciati da Luca Palamara sono davvero ormai superati. E se si decidesse, dopo tante trasgressioni, ad applicare il principio per cui solo chi è già stato procuratore capo, magari in una piccola città, possa ambire allo stesso ruolo in una metropoli come Roma o Milano.

La scadenza è vicina: Francesco Greco, che occupa quel ruolo da cinque anni, è nato nel 1951, a novembre compirà settant’anni, la data del suo pensionamento. Gli anni passano, e uno dei più giovani “pulcini”, o “aquilotti” (come lui li chiamava) di Saverio Borrelli, dovrà lasciare. Il quarto piano del palazzaccio di Milano è da tempo immemorabile feudo sicuro di Magistratura democratica. È sempre stato un dato di fatto, accettato non solo tra i membri del Csm, anche quelli laici, ma anche dai leader di partito e Presidenti del consiglio i quali, compreso Berlusconi, hanno dato il loro assenso alla promozione di ciascuno di loro nel corso degli anni.

Ma tutto questo accadeva prima della bufera Palamara. Anche l’ultima volta, nel 2016, gli outsider sapevano di non avere nessuna possibilità di espugnare Milano. Tra loro c’era anche Nicola Gratteri, che fu subito dirottato su Catanzaro. Le conseguenze di quella nomina sono sotto gli occhi di tutti: un pm all’americana, una sorta di sceriffo che deve ogni giorno guadagnare punti sul territorio per farsi riconfermare. Anche a costo di pagare con una serie di insuccessi che cancellano tanti dei suoi arresti. Ma poiché ne ottiene dai giudici qualche centinaio alla volta, non si pone il problema. E tira diritto, da un “Rinascita Scott” all’altro.

Nicola Gratteri è forse il procuratore meno politico che ci sia in circolazione. È molto individualista e ignora le correnti del sindacato dei magistrati. Per questo sarebbe perfetto per Milano. La sua elezione sarebbe una vera discontinuità per la procura più politica d’Italia. Quella dove l’arroganza fin dagli anni novanta ha consentito una certa indifferenza nei confronti di principi costituzionali come l’obbligatorietà dell’azione penale, difesa con le unghie e i denti se si propone di abrogarla, ma ignorata ogni volta in cui il fine giustifica i mezzi. Sono tanti gli esempi, che hanno creato disparità di trattamento tra indagati e imputati: perché per esempio, durante tangentopoli, fu consentito a Cesare Romiti di cavarsela con un memoriale, ma lo stesso trattamento non fu riservato a Raul Gardini? E in epoca successiva: per quale motivo il presidente del consiglio Matteo Renzi ringraziò il procuratore Bruti Liberati per la “sensibilità” dimostrata nei confronti di Expo?

Forse per l’atteggiamento della procura nei confronti di Beppe Sala? E Bruti non era lo stesso procuratore che dimenticò in cassaforte degli atti giudiziari mentre era in corso una gara d’appalto per la vendita della Sea, la società degli aeroporti milanesi, che andò in un certo modo, come tutti avevano previsto? La corrente della magistratura che era stata la più ideologica ma anche, almeno nella sua parte più radicale, garantista in modo puntiglioso (si ricordano ancora, in procura, i dissensi di Francesco Greco nei confronti di Armando Spataro e dell’uso del “pentitismo” nei processi di terrorismo), era poi diventata abilissima nel giocare le proprie pedine.

C’è sempre di mezzo il principio della (finta) obbligatorietà dell’azione penale e di un certo modo di condurre le indagini se una persona considerata molto corretta come Saverio Borrelli si spingerà a dichiarare: «È così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto risultati positivi nella ricerca della verità?» E se lo stesso, molti anni dopo la fine di Tangentopoli non si rammaricò del fatto che non fosse valsa la pena mettere in piedi tutte quelle inchieste per arrivare al risultato della vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche del 1994. Si, è proprio la procura della repubblica più politica d’Italia. Luca Palamara, nel libro-intervista con Alessandro Sallusti, la cita come esempio importante, il più famoso, sul funzionamento del “Sistema”.

Ricorda come nel 2014 le inchieste contro Berlusconi improvvisamente accelerassero e quelle sull’Expo giacessero su un binario morto, come i fatti che riguardavano Roberto Formigoni andassero in turbo e le carte sulla Sea dormissero in cassaforte. Ricorda come un intervento del presidente Giorgio Napolitano, il cui nome può tranquillamente essere scritto sulla lavagna dei “cattivi”, gli uomini del “Sistema”, salvò il procuratore Bruti Liberati nella guerra infinita con il suo aggiunto Robledo, sacrificato e distrutto sulla tomba dello Stato di diritto. Il ringraziamento, un anno dopo, da parte di Renzi che cosa significava, si dice nel libro, se non “grazie per aver allentato le indagini” sul sindaco Sala e su Expo?

È proprio questa la cosa più raccapricciante del racconto di Luca Palamara, il sospetto di una giurisdizione avvelenata dalle ideologie, dalle carriere, dagli intrighi di Palazzo. Sarebbe bastato aver letto meglio, nel 1998, il libro di Francesco Misiani e Carlo Bonini (Toga rossa) in cui si racconta di quando Francesco Greco disse al suo ex maestro che l’importante non era quale fosse la competenza territoriale per certe indagini, ma individuare chi, cioè la procura di Milano, potesse farle. E sulla base di questa logica, completamente fuori legge, gli uomini di Borrelli avevano sbattuto in galera due innocenti quali l’ex ministro della giustizia Clelio Darida e l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili. Poi scarcerati e assolti a Roma, una volta riportata sui giusti binari la competenza nel luogo dove si erano svolti i fatti.

Se Edmondo Bruti Liberati, il penultimo procuratore capo di Milano, viene definito “uomo cardine” del “Sistema”, Francesco Greco, l’ultimo, non ne è mai stato estraneo. Anche se lo ricordiamo molto rigoroso nel 2018, durante un convegno di celebrazione del sessantesimo compleanno dell’organo di autogoverno, mentre sentenziava che «Il Csm deve essere un palazzo di vetro. Non ci possiamo più permettere vie clientelari di accesso al Csm». Giustissimo. Supponiamo che il procuratore di Milano sia contrario alle vie clientelari anche nelle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. E a tal proposito, non so se abbia già querelato Luca Palamara per quel che scrive nel suo libro. È un ricordo del 2016, proprio i giorni in cui, dopo il pensionamento di Bruti Liberati, il Csm deve scegliere il successore. I voti di Palamara sono determinanti e Greco, designato da Magistratura democratica, lo sa.

I due si incontrano a Roma all’hotel Montemartini. «Ci intendiamo subito e gli garantisco il mio appoggio», scrive quello che fu il magistrato più potente del Csm. Ma deve essere falso, perché il procuratore di Milano è contrario alle clientele. Non avrebbe mai accettato un pacchetto di voti. Tanto che, quando nel 2019 è scoppiato lo scandalo che ha riguardato l’autore del libro sul “Sistema”, ha parlato delle «umilianti logiche romane che sovrintendono al Csm». Perché stupirsi di questo dietrofront? Francesco Greco non era lo stesso che aveva denunciato al Csm il suo amico Misiani solo per una banale informazione che questi gli aveva chiesto su un’inchiesta?

Comunque il procuratore ha ragione, le logiche milanesi sono diverse da quelle romane. Ma basta prendere un treno per trasformarsi. E non è detto che uno di quelli che vanno in senso contrario, da sud a nord, non si trovi a prenderlo nei prossimi mesi proprio Nicola Gratteri. La Calabria ringrazierebbe. E la Lombardia si libererebbe del “Sistema”.