Il voto, le piazze, l’astensionismo

di Stefano Allievi

… Il vento dell’astensionismo non è cambiato per nulla: viene da lontano, e promette di andare ancora più lontano, verso una perdita progressiva di rappresentanza sempre più visibile – in Italia ma anche altrove. Segno di una tendenza lunga che non può non preoccupare chi ha a cuore i destini delle democrazie. Che non significa necessariamente i partiti: che, invece, dall’astensionismo hanno in un certo senso da guadagnare, dato che facilita loro il compito. I posti da occupare sono sempre i medesimi, e con meno votanti, costa meno e si fa meno fatica a raggiungere gli elettori, e a indirizzare il voto verso i rappresentanti dell’apparato che meglio garantiscono controllo, carriere e clientele.

Tra le tante spiegazioni dell’aumento dell’astensionismo c’è la progressiva perdita di capacità dei partiti di fare da collegamento tra i cittadini e le istituzioni. Un po’ perché sono scomparsi dai territori: tra tutti, solo Lega e Partito Democratico hanno ancora sezioni e circoli locali abbastanza diffusi: ma hanno una vita interna che arranca, abitata soprattutto da pensionati, poco attrattiva per le generazioni più giovani (che, infatti, in proporzione, votano meno degli anziani), poco vivace, poco collegata persino alle dinamiche territoriali, per lo più ridotta a riprodurre su scala locale messaggi e diatribe nazionali – più simili a stanchi megafoni che a vitali produttori di energia e attivismo. E per il resto la politica si fa altrove, in altro modo, senza intercettare la vita dei partiti.

Dovrebbe interrogare questa separatezza assoluta tra la militanza e il desiderio di impegno, pur esistenti sotto forme anche inedite, e la capacità della politica di rappresentarli, di veicolarne le istanze e le proposte.

Quali sono le piazze più significative viste negli ultimi tempi, anche in Italia? Quelle dei giovani impegnati per i Fridays for future, in lotta per la salute del pianeta e un futuro migliore: eppure, in Italia, senza un partito ecologista di riferimento, e nemmeno una corrente di pensiero organizzata e magari trasversale all’interno degli schieramenti politici. O le piazze no vax (o no qualunque cosa), mobilitate intorno a egoismi individuali, che non riescono nemmeno loro a farsi partito, pur trovando orecchie strumentalmente condiscendenti in alcune forze politiche, che tuttavia è arduo ipotizzare si trasformino in consenso, per giunta minimamente stabile.

Sì, è vero, ci sono le piazze sindacali: esse stesse sempre più distaccate dai tradizionali partiti di rappresentanza, non più cinghie di trasmissione ma nemmeno strumenti di collegamento tra le lotte per il lavoro (sempre più rituali nelle loro forme, e oltre tutto portate avanti da organizzazioni in cui la maggioranza degli iscritti e di coloro che si mobilitano dal mondo del lavoro sono già fuori, essendo pensionati) e la rappresentanza politica allargata. O le piazze dei diritti civili, dei pride: anche queste, se ci si pensa, legate a diritti e bisogni interpretati più come individuali che come esigenza collettiva. Che in politica si traducono più in carriere per rappresentanti monotematici di queste istanze che come parte di un disegno politico più complessivo.

Ecco allora che l’astensionismo diventa fatto sempre più significativo, addirittura dominante (non più solo il primo ‘partito’, ma maggioranza assoluta del corpo elettorale), ma tuttavia irrilevante, capace di mandare un segnale confuso di disagio, ma incapace di dare un produttivo scossone all’edificio malcerto della democrazia rappresentativa.