Rende, il blitz di Gratteri. Ecco perché il gruppo D’Ambrosio ha mollato Principe per sostenere Manna

Il tema delle ingerenze da parte della criminalità organizzata e segnatamente del gruppo D’Ambrosio nelle competizioni elettorali amministrative del Comune di Rende è un fatto che ha caratterizzato quantomeno l’ultimo ventennio politico per come è emerso da precedenti inchieste. Si tratta, in particolare, dell’inchiesta “Sistema Rende” della Dda di Catanzaro condotta dall’allora pm Pierpaolo Bruni, che aveva ad oggetto una serie di fatti collusivi (contestati sia quali singoli episodi di corruzione elettorale sia in termini di un più ampio patto corruttivo) intervenuti tra esponenti di primo piano della cosca Lanzino, della quale facevano parte Adolfo D’Ambrosio, i fratelli Michele e Umberto Di Puppo e Francesco Patitucci, e i principali esponenti politici e amministrativi di Rende, in particolare Sandro Principe, Umberto Bernaudo e Pietro Paolo Ruffolo, in un largo arco temporale compreso tra il 1999 e il 2011.

Nell’ambito di quel procedimento penale, secondo la prospettazione accusatoria, Sandro Principe (sindaco del Comune di Rende nelle consiliature del 1999 e del 2004 e comunque vertice politico di riferimento dell’amministrazione anche quando non ricopriva cariche formali), Umberto Bernaudo e Pietro Paolo Ruffolo (rispettivamente già sindaco del Comune di Rende dal 2006 e già assessore dal 2007), consapevoli della caratura mafiosa dei loro interlocutori, ottenevano il procacciamento di voti, anche con modalità mafiose, da parte del clan Lanzino, assicurando in cambio l’esecuzione di condotte procedimentale amministrative di favore e contrarie ai propri doveri d’ufficio.

Il procedimento penale con rito abbreviato si è chiuso con la condanna di Adolfo D’Ambrosio a 4 anni e 8 mesi e la sentenza ha operato una importante ricostruzione dei rapporti, del contesto e del background di ingerenza criminale nelle competizioni elettorali amministrative del Comune di Rende a partire dalla fine degli anni 90.

In sintesi, scrive il giudice che “… è possibile ritenere raggiunta la prova della stipulazione, intorno al 1999, di un patto elettorale politico-mafioso fra Sandro Principe e gli esponenti del clan Lanzino avente ad oggetto lo scambio tra l’appoggio elettorale degli uomini del clan e la disponibilità a porre in essere una serie di condotte amministrative di favore, realizzate dal Principe attraverso l’indebita ingerenza sull’apparato amministrativo del Comune di Rende ovvero l’organo di presidenza di società sottoposte a controllo pubblico. Il vasto compendio probatorio consente di delineare una sorta di “accordo corruttivo quadro” destinato a rinnovarsi ad ogni competizione elettorale sino al 2011, anno in cui Adolfo D’Ambrosio comincia a lamentare il mancato rispetto dell’intesa, preludio della rottura, attestata dalle conversazioni in carcere del 2014… Infine, nell’ambito di scelte spregiudicatamente clientelari, appare difficilmente dubitabile la consapevolezza dei politici coinvolti in ordine alla caratura criminale della controparte (basti pensare alla “fama” di Ettore Lanzino assunto nella cooperativa Rende 2000 nell’aprile 2008) ed all’agevolazione della cosca conseguente all’adozione di atti e comportamenti amministrativi di favore”.

La sentenza richiamata ricostruisce il “sistema Rende” dalla fine degli anni 90 fino al 2011. Ma si spinge anche oltre, ponendo le chiavi di lettura anche per le elezioni del 2014, laddove introduce il “momento di rottura” dell’accertato accordo corruttivo quadro, allorquando Adolfo D’Ambrosio comincia a lamentare il mancato rispetto dell’accordo illecito da parte di quei politici sostenuti dall’organizzazione mafiosa, ragion per cui nelle tornate elettorali successive del 2014 e del 2019 il sostegno elettorale della medesima compagine criminale organizzata sarà trasferito a beneficio di un nuovo candidato sindaco, l’avvocato del foro di Cosenza Marcello Manna.

Sono esplicativi in tal senso i contenuti delle intercettazioni ambientali dei colloqui in carcere tra Adolfo D’Ambrosio e i figli, anch’essi riportati nella sentenza del 2018. Nel colloquio del 3 marzo 2014, mentre si era entrati nel pieno della campagna elettorale per le Comunali del 2014, Adolfo D’Ambrosio veniva aggiornato dalla figlia Simona sulle novità inerenti gli schieramenti politici. Il D’Ambrosio, nel chiedere notizie anche di Rosario Mirabelli, si lasciava andare ad una emblematica affermazione: “Vaffanculo… solo noi dobbiamo pagare?“, dimostrativa di come, a dispetto dei favori inizialmente ricevuti da Adolfo D’Ambrosio e famiglia per l’attività di campagna elettorale fornita negli anni, a un certo punto si fosse verificata una rottura nei rapporti con i politici “aiutati”, tanto che il D’Ambrosio – e questo era stato il punto nodale della propaganda elettorale per le Comunali del 2011 – già nel 2011 aveva deciso di appoggiare Sandro Principe in misura minore rispetto al passato e di sostenere anche la candidatura di Rosario Mirabelli.

Altro colloquio in carcere di interesse è quello che D’Ambrosio intratteneva con il figlio Aldo il 12 marzo 2014. Dall’esame delle rispettive affermazioni si ricava che D’Ambrosio esortava il figlio a specificare al cugino Francesco di informare lo “sciancato”, con chiaro riferimento a Sandro Principe, che nell’ormai nota inchiesta giudiziaria la reale vittima designata era proprio lui (Principe, che sarebbe stato arrestato solo due anni dopo), nonostante gli inquirenti si fossero accaniti solo col D’Ambrosio (testuale: “a quell’altro sciancato gli fai dire e gli dici… Gli fai sapere allo sciancato che a lui volevano…a mio padre l’hanno torchiato… hai capito? Che volevano sapere il risultato… non c’è niente… pisciatù… I soldi voglio!!!).

Riferisce, quindi, di non aver ricevuto favori ma solo danni dall’amministrazione comunale facente riferimento a Sandro Principe, con riguardo al suo licenziamento da dipendente comunale (testuale: “Gli devi dire che il posto gliel’hanno cacciato perché da nessuna parte è esistito…”) alla negazione della possibilità di assumere in sua vece il figlio Aldo (testuale: “No… perché esco io e posso fare entrare a te… non l’ha voluto fare”) alla mancata inaugurazione del Palazzetto dello sport, che avrebbe certamente portato ingenti guadagni alle casse dell’adiacente bar Colibrì di loro pertinenza (testuale: “… questo Palazzetto… sono vent’anni…”) ed al mancato riconoscimento dello scomputo per alcuni lavori effettuati precisando che il riferimento è al mandato del sindaco Cavalcanti, subentrato a Bernaudo, sotto il cui mandato i lavori erano stati invece scomputati.

Adolfo D’Ambrosio ribadiva la sua disponibilità ad effettuare un nuovo sostegno elettorale solo previo lauto compenso economico ovvero un interesse economico immediatamente valutabile e conseguibile (testuale: “I soldi che ho speso me li avete fatti scontare? Ohi luardi… Questi ci vogliono…”). Le ulteriori affermazioni (“In silenzio sempre noi… come sempre abbiamo fatto… così si fanno le cose”) utilizzate da D’Ambrosio appaiono indiscutibilmente rivelatrici dell’esistenza di un modus operandi dell’intero gruppo criminale di cui in quel momento D’Ambrosio è espressione in relazione al sistematico impegno elettorale fornito per le amministrative di Rende senza destare clamori che potessero richiare di compromettere i politici favoriti e le conseguenti concessioni rilasciate in cambio.

Allo stesso modo, assume rilievo l’espressione rivolta da Aldo D’Ambrosio al padre quando, nel riferire in ordine alla chiacchierata avuta dallo stesso con il cugino Francesco D’Ambrosio esclamava al padre: “Ha detto che noi solo come famiglia portiamo 300 voti…”, affermazione chiaramente riconducibile alla capacità dei D’Ambrosio di ottenere e spostare centinaia id consensi tra la cittadinanza grazie alla ramificata proiezione sul territorio ed alla forza di intimidazione di cui possono giovarsi.

A questo punto, viene riportata la dichiarazione di Adolfo Foggetti, ormai famosa, riguardante la campagna elettorale del 2014 (https://www.iacchite.blog/le-cantate-di-foggetti6-la-campagna-elettorale-per-marcello-manna-a-rende/).

Sulla scorta di queste premesse che confermano la sistematicità dell’interessamento e del sostegno della criminalità organizzata cosentina rispetto alle elezioni comunali di Rende, senza soluzione di continuità, almeno dal 1999 e passando anche per il 2014, si analizza il compendio probatorio dell’attuale inchiesta che riguarda le elezioni del 2019.

Una sola considerazione rispetto a questa ampia premessa: l’ultimo blitz di Gratteri affronta i reati connessi alle elezioni del 2019 ma parte – esplicitamente – da quelle del 2014 che, tuttavia, non vengono considerate in termini di misure cautelari e lasciano fuori, tanto solo per fare un esempio, Gaetano Morrone, uomo di Marcello Manna e intermediario con gli uomini del clan. Perché? La risposta è semplice: le elezioni di Rende del 2014 sono accoppiate e sono strettamente legate a quelle di Cosenza del 2011 e del 2016, con le quali hanno fortissimi legami e molti sono pressoché sicuri che saranno uno dei “piatti forti” del prossimo blitz di Gratteri. Buona fortuna a tutti!