Calabria. “Repubblica” intervista il carabiniere del Ros che si è infiltrato in una ‘ndrina

(di Alessia Candito – repubblica.it) – Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali. Ma “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ‘ndrangheta, e il suo nome reale deve rimanere segreto. Si sa e si può dire che è un carabiniere del Ros, che di esperienza ne ha da vendere in Italia e all’estero e che quella appena conclusa non è la sua prima operazione coperta. Ma questa volta è diverso. Con il coordinamento della procura antimafia di Reggio Calabria, facendo lo slalom fra norme che in Italia impongono mille limitazioni all’utilizzo di undercover, nella mafia più impenetrabile lui è riuscito a infiltrarsi. In sinergia con un collega belga, che “lavorava” su una delle cellule all’estero, per anni ha raccolto informazioni su movimenti finanziari, traffici internazionali, latitanze, ma soprattutto su rapporti e contatti. Un tesoro di informazioni divenute essenziali per la maxi inchiesta “Eureka”, che la scorsa settimana ha portato a più di duecento arresti in tutta Europa. E chissà quante altre inchieste ancora da venire. Uno sgarbo che le ‘ndrine forse mai hanno messo in conto.

Ha paura di conseguenze o ritorsioni?

“Non sono preoccupato, solo consapevole che potrebbe esserci una reazione. Vedremo poi, magari al processo come reagiranno”.

Chi era Paolo? Per quanto tempo è diventato lui?

“Per circa due anni e mezzo. Ero un insospettabile legato a contesti criminali, utile a risolvere problemi grazie a  suoi rapporti, contatti e ganci in Italia e all’estero. Con un collega belga abbiamo lavorato in più Paesi. Di più, al momento non posso dire”.

È stato difficile farlo convivere con la sua vita reale?

“Bisogna tenere ben distinte le due cose. Non è semplice neanche per chi ti sta vicino, che magari ti vede sparire per settimane o mesi e non sa e non può sapere cosa tu stia facendo”.

L’operazione è andata avanti anche negli anni del Covid. È stato un ostacolo o un aiuto?

“Non ci siamo mai fermati. È stato complicato nella misura in cui bisognava essere sempre disponibili ma non troppo. Non si doveva mai mostrare troppa facilità di movimento  altrimenti avrebbero capito. Quindi è stato necessario anche simulare sotterfugi, come permessi falsi per muoversi o contatti al posto giusto”.

Non ha mai ha avuto paura che la copertura saltasse, con i rischi del caso?

“Tutto è stato pianificato in dettaglio, sapevo che dietro di me c’erano i colleghi. Ma non è stato facile, bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. Anche a distanza di anni dal primo contatto, gli uomini dei clan ti mettono alla prova, verificano tutto quello che dici o racconti, le persone che sostieni di conoscere, le circostanze. Non ci si posso permettere sbavature”.

Dopo aver indagato per anni sulla ‘ndrangheta, che effetto fa trovarsi dentro?

“È molto più pericolosa di quanto si possa immaginare. Loro non si fermano mai davanti a nulla, neanche davanti alla prospettiva di trent’anni di galera. Ed è molto più ampia e ramificata di quanto si possa pensare”.

San Luca, Bovalino, Bianco sono paesini di poche migliaia di anime della Locride, si fa fatica a immaginare che siano al centro di traffici mondiali e transazioni milionarie.

“Non devono ingannare. Ovviamente non tutti gli uomini sono allo stesso livello, ma ci sono soggetti con capacità manageriali inimmaginabili e contatti in tutto il globo. Stanno a Bovalino e quattro giorni dopo te li ritrovi in Sud America o in Europa, poi di nuovo a Bovalino al bar.  Hanno rapporti fraterni con i vertici del clan del Golfo, dei cartelli messicani. E muovono milioni”.

Lo ha visto con i suoi occhi?

“Ho visto movimentare una trentina di milioni”.

Come?

“In Italia, grazie a un circuito criminale cinese che funziona come l’hawala. È una sorta di money transfer clandestino. I soldi, circa un milione alla volta, venivano ritirati e cinque minuti dopo erano disponibili magari in un Paese latinoamericano”.

Magari?

“Sì, diciamo magari”.

Oltre a soldi e coca, in America Latina si muovevano anche i grandi broker dei clan, a partire da Rocco Morabito. Le è capitato di incrociarli?

“Posso dire che Morabito è stato individuato anche grazie a informazioni che sono riuscito a raccogliere”.

Nei due anni da “Paolo” ha visto anche insospettabili relazionarsi con ambienti di ‘ndrangheta?

“Non posso scendere nei dettagli. Qualche imprenditore sicuramente”.

Ha mai avuto la sensazione che ci fosse una regia più grande dietro l’azione dei singoli clan?

“La ‘ndrangheta è unitaria, c’è sempre una sorta di mutuo soccorso fra le diverse famiglie”.

Sensazione quando l’operazione “Eureka” è stata eseguita?

“Una liberazione. Ero già “esfiltrato”, ma finalmente ho potuto allentare la tensione”.

E se adesso le proponessero di tornare sotto copertura sarebbe disponibile?

“Certamente, ma magari dopo un paio di giorni di vacanza”.