Cosenza e il turpiloquio: il cosentino è il più educato d’Europa

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(racconto semiserio)

Negli ultimi tempi ho fatto una scoperta che francamente non mi aspettavo. Ho scoperto che Cosenza è la città più educata di tutta l’Europa. E non solo per come si “esprime” giornalmente nelle normali prassi del vivere civile, tipo: non buttare le carte per terra, fare la differenziata, rispettare la fila, non chiedere raccomandazioni, aiutare le vecchiette ad attraversare la strada, non attaccare le gingomme ai sedili dell’autobus, raccogliere la cacca dei propri cani, ma soprattutto, il cosentino, si distingue dal resto del mondo per la sua avversione al turpiloquio.

Se c’è una cosa che il cosentino non sopporta è il turpiloquio. Proprio non ce la fa ad esprimersi con un linguaggio scurrile. C’è addirittura chi lo aborre (Mughini docet). Se arrassusia ti scappa, mentre discuti con un cosentino, anche solo un intercalare volgare, apriti cielo: potrebbe aversene a male e troncare la discussione.

Prima di tutto l’educazione per il cosentino. Specie nel parlare. Il cosentino infatti è solito esprimersi con stile, inteso come stil novo. E’ appassionato, sempre il cosentino, dell’eloquenza, e non lesina magniloquenza in ogni dire.

Non sopporta le volgarità il cosentino. Anche quando subisce una offesa riesce, a differenza del resto del mondo, a misurare le parole. Un campione di autocontrollo.

Questa cosa l’ho scoperta l’altro giorno al bar: c’erano quattro signori anziani seduti al tavolino che discutevano di politica, tasse, pensioni, sanità, lavoro e corruzione. Si sa che il bar per il cosentino è il luogo preferito dove sfoggiare le proprie doti di oratore. Uno dei signori raccontava agli altri le continue vessazione che era costretto a subire dalla sanità, e del fatto che, gira vota e riminia, tutto il sistema pubblico è un grande magna magna. Che spesso induce il paziente a rivolgersi agli studi privati, sempre dietro elargizione a nero di bei dollaroni al dottore. E chi non sgancia la guagna, e aspetta il servizio pubblico, può pure morire. Un racconto orribile di sofferenze e privazioni, messe in atto scientificamente da ladroni e parassiti.

Mentre raccontava gli orrori della sanità, notavo gli altri tre che, oltre ad annuire, spezzavano la narrazione con qualche imprecazione verso i cattivi del racconto, tipo: ma che birbantello quel dottore… la colpa è tutta di quel birbaccione politico… e che dire poi di quei birbanti che si intascano le bustarelle… se lo fanno è perché qualche briccone in procura li protegge… si sa che i dipendenti pubblici sono abituati alle marachelle.

Cacchio ho pensato, questo sta raccontando degli orrori, eppure dalla loro bocca non esce un ‘nculachilemuartu, nu pisciaturu, na puttana i mammata, nu merda, niente, solo parole misurare e colte, anche nell’imprecazione.

Al che, stupito dall’evento, mi intrometto nel quartetto, e chiedo: scusate possibile che tutto l’orrore raccontato non susciti in voi il desiderio di dire un bel vaffanculo?

E’ questo il punto, disse uno dei cosentini seduti al tavolino: se noi dicessimo le parolacce, i nostri discorsi non verrebbero presi sul serio e tutta l’attenzione si focalizzerebbe sull’imprecazione piuttosto che sulla sostanza del nostro dire. A Cosenza, continua, la parolaccia non è rafforzativa del ragionamento, ma solo sinonimo di maleducazione. Noi a Cosenza a questo ci teniamo. Specie a sinistra.

Insisto: anche San Francesco diceva (nei Fioretti) che al diavolo si possono dire le parolacce. E se chi ruba ai poveri per dare ai ricchi non è il diavolo, ditemi voi a chi bisogna dire qualche parolaccia. E poi, voi dite che senza rabbia, da cui spontanee nascono le imprecazioni, si può aspirare al cambiamento? Io non penso.

Vedi, rispose un altro dopo avermi riconosciuto come redattore di Iacchite’, non è il cambiamento in quanto tale che ci interessa, ma lo stile con cui si cambia. Se tu pensi che dare del figlio di puttana ad un corrotto porti al cambiamento vuol dire che non hai capito niente di questa città. Puoi anche annunciare, domani mattina, con carte ara manu, e prove evidenti mandate direttamente dalla NASA, l’arrivo della fine del mondo da lì a qualche ora, che, se ci metti dentro un “cazzo”, o un porca puttana, o dai del cornuto a questo o quello perché responsabili, il cosentino commenterà le parolacce e non la fine del mondo.

Siamo fatti così, ogni scusa è buona per non prendere posizione, anche di fronte all’evidenza, e questa cosa delle parolacce è la scusa buona per prendere le distanze dalle verità che voi raccontate, altrimenti per coerenza dovremmo parlare dei contenuti dei vostri articoli e metterci contro i birbaccioni di questa città. E non ci conviene. E’ l’alibi perfetto per non esporsi. E’ questo il vostro errore: provate a non dire più parolacce e vedrete che tutta la città sarà costretta a prendere posizione sulle cose che scrivete. Non avranno più scuse di fronte alla verità.

Mah! Quanta filosofia, replico, qualche vaffanculo ci vuole anche per “scaricare” un po’ di nevrosi, e comunque l’esperimento mi sembra interessante, e voglio provarci, eliminerò ogni aggettivo offensivo e imprecazione, da oggi in poi, dai miei scritti. Non appellerò più nessuno in maniera volgare. E voglio vedere che succede, specie a sinistra che – ho capito – ci tengono tanto.

Una scoperta interessante questa, non me l’aspettavo tanta finezza dai cosentini, e nel ringraziare i quattro per l’illuminante discussione, decido di andare via. Ma alzandomi dalla sedia sbatto il ginocchio aru zinnu del tavolino… un dolore insopportabile tale da strapparmi dalla bocca un bel: chi cazzu i duluri.

Allora vedi che non hai capito niente? Disse uno dei signori: non avresti dovuto dire “chi cazzu i duluri” ma: chi organo genitale maschile di dolore. E’ così che si inizia, dalle piccole cose, impegnati e vedrai che le cose cambieranno, ma con stile. Che è quello che vi manca.

Ah! Mo’ è capitu!

GdD