Covid Calabria. Tamponi e tracciamento dei contagi: perché la macchina si è inceppata

In queste ultime ore il governo sta ripetendo il tragicomico rito della divisione dell’Italia in zone colorate. Ormai, dopo le vibrate proteste delle Regioni, sono ben poche quelle che vanno a finire in zona rossa. Neanche la Calabria, in zona gialla – forse anche arancione nei fatti – nonostante un numero molto alto di contagi e vittime. Ma ormai non è questo il problema, né la questione centrale. Il problema (nazionale ormai) è rappresentato dall’attendibilità dei dati, ai quali ormai credono davvero in pochi e in questo senso la Calabria è tra le regioni meno credibili per tutta una serie di numeri truccati o inverosimili. Un disastro da addebitare in parti più o meno uguali a tutta la catena di comando, dalla Regione appunto per finire alle singole task force delle Asp e della Aziende Ospedaliere. Con l’aggravante dello scandalo tutto cosentino degli straordinari d’oro.

L’aumento esponenziale del contagio da coronavirus in Calabria è da addebitare principalmente a due componenti: è saltato il tracciamento dei contagi e ci sono ritardi assurdi negli esiti dei tamponi. Non si riesce più a tracciare i limiti dei contatti e il problema è rilevante perché non si controllano i focolai e i contagi, come dicono i numeri, esplodono. In tutte e cinque le province calabresi ma specialmente a Cosenza e a Reggio la situazione è di grave confusione. 

Al ritmo di pochissimi casi al giorno, quest’estate, quando mezza Italia era al mare e l’altra metà riassaporava l’ebbrezza di spostarsi in bici nelle città vuote, tutto filava liscio sul fronte del tracciamento dell’epidemia: niente casi in ospedale, molto screening sugli asintomatici (che al tampone arrivavano per l’“incidente” di un sierologico positivo, un po’ per volta, gradualmente). Facile trovare il Covid, allora, e facile bloccare i suoi tentacoli: dieci per caso, stimano gli esperti. Significa che la macchina del contact tracing messa in moto da un singolo nuovo positivo finisce, mediamente, per raccogliere almeno dieci potenziali “contatti” contagiati. Su cui poi interviene l’altra macchina, quella dei tamponi, pronta a sentenziare quarantene o liberazioni.

Eccola qui, l’impalcatura che è stata travolta dalla seconda, dalla terza e adesso anche dalla quarta ondata dell’epidemia molto prima dei reparti di Terapia intensiva o dei Pronto soccorso negli ospedali. Un costrutto già di per sé fragile, va detto: quei ritmi blandi prima della seconda e della terza ondata non avevano spinto il Paese e meno che meno la Calabria (dove la buonanima della Santelli invitava la gente a venire da noi ché il rischio era solo quello di ingrassare…) ad attrezzarsi di centri e laboratori pubblici specializzati che processassero più tamponi – sono meno di 50 da Nord a Sud, negli ultimi anni sono stati più volte “tagliati” e accorpati in assenza di esigenze epidemiologiche particolari – e nemmeno di personale, anche questo ridotto dal 25 al 30% nel corso degli anni.

I dati li hanno ricordati al governo gli infettivologii. Certificando l’errore di non aver coinvolto i medici di base nella procedura delle diagnosi attraverso i test rapidi: a tutt’oggi, nonostante la loro disponibilità, questi ultimi non hanno il permesso di fare diagnosi. Pensare che con le prime fiammate di fine agosto – quando dai 300 casi siamo passati ai 1.300 per intendersi ed è successo sia nella seconda che nella terza ondata – quella macchina ha persino dimostrato di potersi superare: il numero di tamponi quotidiani è andato via via crescendo, fino a raddoppiare e addirittura triplicare le performance precedenti.

Ma era già tardi, e le code ai drive-in evocate persino dall’ex premier Conte sono state un campanello d’allarme tardivo: di dieci contatti in dieci contatti, con le città che avevano ormai ripreso a pieni ritmi produttività e scuola, coi mezzi pubblici e i supermercati e persino i ristoranti stracolmi, il bandolo della matassa s’è perso in fretta. E il virus è tornato a fare il virus. E se il sistema di tracciamento salta è chiaro che non c’è più contenimento della pandemia. Dunque bisogna da un lato rafforzare subito il personale delle Asp dedicato al contact tracing, dall’altro procedere all’autolockdowngentile. I medici, insomma, stanno chiedendo ai cittadini molto di più dell’uso della mascherina e del distanziamento: cioè di applicare da soli misure autorestrittive in barba a protocolli e regole per le quarantene, al momento chiaramente superate dai contagi.

Ah, dovremmo parlare – a questo punto – dei vaccini, che avrebbero dovuto fermare tutto. Ma siamo ormai a più di un anno dall’avvio della campagna vaccinale e i risultati sono quelli sotto gli occhi di tutti. Di conseguenza, ce la caviamo (anche noi) stendendo un velo pietoso. E che altro possiamo fare?


L’indagine
Il pilastro fondamentale del “contact tracing” è l’indagine sui contatti stretti di un positivo: più è tempestiva, più in fretta si interrompe la catena dei contagi.

L’isolamento
Individuare e avvertire i contatti di una persona positiva fa scattare subito l’isolamento fiduciario preventivo: è lo strumento che previene gli eventuali contagi in attesa di una diagnosi.

Il tampone
Il tampone è l’ultimo passo da compiere: se negativo, la macchina libera i soggetti a rischio.
Se positivo, la catena dei contagi è già stata interrotta: ora serve solo il rispetto della quarantena.