Da “Città del sole” a “Città del sòla” a volte è un attimo… (di Sergio Aquino)

Da “Città del sole” a “Città del sòla” a volte è un attimo…

di Sergio Aquino 

Agli abitanti della Città del sole, nel nord della Calabrifornia, era servito ben più di un attimo, quasi otto anni a dirla tutta, però alla fine anche i più restii erano stati costretti ad ammettere che, in preda ad una sorta di follia collettiva, avevano affidato le proprie sorti, il proprio futuro, ad un incrocio tra un pifferaio magico e Pinocchio.
Ora, però, il re era definitivamente nudo e nella Città del sole, a parte i miracolati e i determinati (ovvero i percettori di determine), era difficile scovare sostenitori del Sindaco che avessero il coraggio di ammetterlo pubblicamente.

In realtà, anche i pochi che ancora pubblicamente lo osannavano (per grazia ricevuta o da ricevere), in privato ne dicevano di cotte e di crude contro di lui.
In questo scenario, il Sindaco, ormai a corto di panzane da raccontare ai “cittadini sudditi”, aveva convocato una riunione.

Nella grande sala del municipio l’aria era cupa e la tensione si poteva tagliare con il coltello.
La riunione di Giunta, allargata alla maggioranza consiliare che sosteneva l’amministrazione e ufficialmente aperta anche ai finti oppositori (quasi tutti appartenenti alla formazione dei “Ravveduti, forse”, di cui facevano parte, tra gli altri, i consiglieri Consorte, Noto, Muto e Popilio), era cominciata nel primo pomeriggio di quel mese di luglio caldissimo sotto tutti i punti di vista e dopo cinque ore ancora non era terminata.
I partecipanti avevano raggiunto il municipio alla spicciolata; quelli che non godevano del benefit della macchina blu, ovvero i semplici consiglieri comunali, lo avevano fatto affrontando il percorso con il sole allo zenit e cominciando a capire, finalmente, i motivi delle proteste di quanti avevano fatto notare negli anni precedenti che una città senza alberi somiglia più al deserto del Sahara che non a Ginevra. L’unica nota positiva della convocazione a quell’ora era stata l’assenza dei topi per strada, anche loro scoraggiati dal gran caldo nel compiere le loro consuete scorribande sui cumuli di spazzatura accantonati qua e là in attesa di essere raccolti. La riunione era stata aperta dal Sindaco Lochiudo, che aveva riassunto in sole tre ore, con la sua proverbiale capacità di sintesi, la situazione che si era venuta a creare dopo la sentenza della Corte dei Conti che aveva dichiarato la città in dissesto.
«In attesa del nuovo verdetto, sull’esito del quale è meglio non farci soverchie illusioni, – aveva concluso il Sindaco – è meglio che vi facciate venire qualche idea cunchiusa, e pure in fretta, sennò, prima che ci vengano a cacciare coi forconi, è il caso ca ni facimu i bagagli e ni ricoglimu priestu priestu ara casa!»
Un brivido di freddo, per nulla piacevole nonostante il caldo, aveva attraversato la sala.
“A fa facile, iddru! – avevano pensato in tanti – Mò ca s’è conzato ‘mparu e s’è pagat’i debiti, i nua sinni frica! E vò puru ca ni facimu venì l’idee…”
«Vi vedo perplessi. – aveva insistito il Sindaco – Che c’è? Avanti, parlate! Voi assessori, avete qualche idea?».

Immediatamente, l’assessore Capone si era distinto nella sua performance divenuta ormai leggendaria, affrettandosi a scuotere la testa in segno di diniego, come faceva ogni volta che il Sindaco chiedeva se qualcuno avesse obiezioni alle sue proposte.
Sara Pecora, invece, aveva le lacrime che ruotavano nelle orbite, mentre tutti gli altri assessori, insieme ai consulenti che componevano lo smisurato staff del Sindaco, avevano preferito abbassare lo sguardo e immaginare, rabbrividendo nonostante l’afa, come sarebbe stata la loro vita con la fine della pacchia.
«Diciamo alla stampa che metteremo gli ascensori nelle case popolari! Il popolo sarà con noi!». Era stato il fattivo assessore Picone a parlare: il Sindaco lo guardò con un misto di commiserazione e rabbia e gli ricordò che lo avevano già promesso una ventina di volte e che oggi, senza un centesimo nelle casse, sarebbero stati ancora meno credibili.
«Allora annunciamo che faremo una piazza nuova! – aveva proposto l’assessore Triciclo – Magari con tanti alberi…»
La sala aveva cominciato a rumoreggiare e, a quel punto, ognuno aveva voluto dare il suo contributo (di idee, naturalmente, che per quanto riguardava i soldi, ormai erano un argomento passato di moda.)
«Potremmo proporre una ovovia per raggiungere il castello!»
«E perché non una metropolitana?»
«Non sarebbe venuto il momento di costruire un bel parco verde al posto del viale Mancini?»
«Perché non chiudiamo le strade al traffico veicolare? Potremmo fare tante multe ai trasgressori e rimpolpare le casse!»
«Ma allora chiudiamo anche tutte le traverse, con trappole fotografiche: le inibiamo al traffico senza dire nulla a nessuno e agli automobilisti gli facciamo un culo così!»
L’entusiasmo era cresciuto mano a mano che le splendide proposte prendevano corpo.Si facevano progetti disegnando nell’aria ponti e strade, i consiglieri e gli assessori erano incontenibili.
«Io sarei per un bello stadio nuovo, grande, pieno di negozi, di bar e di ristoranti.»
«Sì, perché poi, alla fine, simu tutti du Cadenza!»
E come se ci fosse stato un direttore d’orchestra a dirigerli, tutti insieme, donne ed uomini, avevano intonato un “Lupi, alè” abbracciandosi e facendo trenini per tutta la sala.
Quando l’entusiasmo si era un po’ calmato, uno dei consiglieri che era stato eletto in una lista di appoggio al Sindaco organizzata dal potente onorevole regionale Buonvicino, esponente del movimento “Fratelli di sangue”, aveva chiesto la parola ed aveva esposto una idea rivoluzionaria.
«Perché non aumentiamo la portata dei fiumi e apriamo la navigazione dei corsi d’acqua alle canoe, alle barche e magari arriva anche qualche nave piena di turisti?»
«Ho letto che a Venezia non vogliono più le grandi navi da crociera, magari le possiamo far passare dalla Città del sole».
«E se non dovessero passare sotto il ponte, noi lo possiamo far alzare…»
«Ecco, lo facciamo tipo ponte levatoio: quando devono passare le navi, si solleva.»
«Io saprei anche a chi affidare la progettazione…»
«Io avrei già la ditta per costruirlo…»
«Noi votiamo a favore se lo costruiamo in periferia!»
«Sì, ma la determina per le paparelle di plastica da mettere nei fiumi la preparo io!».

«BASTA! – L’urlo del Sindaco aveva superato tutte le voci e il silenzio era subito calato sulla sala –. Oltre ad essere un branco di buoni a nulla, siete pure distratti: tutte queste cose, così come gli ascensori, le abbiamo già promesse e molte le abbiamo già fatte. Ma dove cacchio vivete, voi? Non vi siete accorti che per fare cento metri ormai ci vogliono venti minuti e che nelle traverse abbiamo già beccato migliaia di automobilisti con multe spesso ripetute: sennò come lo chiudevamo l’anno scorso il Bilancio?
Ci vogliono idee nuove, nuove cose che possano far sognare i cittadini, che possano far dimenticare loro il fatto che per colpa nostra, e di come abbiamo amministrato, da oggi in poi dovranno pagarsi tutto, anche l’aria che respirano…»

«Ma sei un genio, Sindaco! Come mai non ci abbiamo pensato fino ad oggi? – l’assessore Capone era in un vero e proprio stato di venerazione e aveva guardato il Sindaco come fosse un santo – Mettiamo una tassa sull’aria che si respira e avremo risolto il problema.»
«E’ sempre il più bravo, quello più avanti di tutti! – Sara Pecora aveva ritrovato il suo proverbiale sorriso – Noi non ce lo meritiamo un Sindaco così!»
«E’ nei momenti più difficili che viene fuori la differenza: tu sei grande, troppo grande per questa città. Presidente della Repubblica ti devono fare a te!»
«Ma lo capite che fortuna abbiamo avuto tutti noi, nella nostra vita, ad essere guidati da te? Chi avrebbe mai potuto avere un’idea del genere?»
Tutti i partecipanti alla riunione, uomini e donne, a quel punto avevano ritrovato la forza di parlare, di sorridere, si stava allontanando lo spettro di un ridimensionamento delle prebende, di dover dimenticare cene a base di ostriche e champagne “ara faccia d’i caggi” e serate passate a bere a sbafo nei locali della movida: tutte cose che quel pomeriggio avevano temuto di perdere e che ora invece tornavano prepotentemente ad essere realtà di vita futura.
La felicità per il pericolo scampato era stata così forte che anche persino il consigliere Muto, contravvenendo al suo voto di silenzio che durava dal giorno della sua elezione, ci aveva tenuto a dire la sua: «Siamo d’accordo con questa proposta di tassare l’aria che si respira, ma sulle periferie dobbiamo fare un discorso a parte, tenendo conto di tante cose, delle difficoltà, delle situazioni di disagio…»

Un urlo disumano aveva, però, improvvisamente zittito tutti quanti e le pacche sulle spalle si erano fermate a mezz’aria: tutti erano rimasti a bocca aperta a guardare il Sindaco che, presa la rincorsa per tutta la lunga sala della riunione si era lanciato giù dal balcone, precipitando sul selciato della piazza sottostante.
Passato il primo momento di disorientamento, tutti erano corsi a guardare fuori dalle finestre e qualche coraggioso, come l’assessore Picone, era andato sul balcone per guardare in basso, pur sapendo che avrebbe potuto vedere uno spettacolo raccapricciante.

E, infatti, il Sindaco stava lì, a testa in giù, infilato in posizione quasi verticale in un cumulo enorme di spazzatura che arrivava fin sotto il balcone: quando, un paio di minuti dopo, aveva ripreso conoscenza e si era rimesso in posizione più o meno eretta, aveva tirato fuori la testa dall’immondizia, portandosi appresso delle foglie di insalata appassita a fargli da corona.

A quella vista, tutti i consiglieri, i membri dello staff, gli assessori e i consulenti, affacciati alle finestre, gli avevano tributato un lungo applauso: lui, con la corona di insalata sulla testa ed un sorriso misericordioso, li aveva benedetti e rassicurati, dicendo loro: “Non preoccupatevi, vi porterò tutti con me!”