D’Agostino si racconta: «Il “pettegolezzo” è il cavallo di Troia per entrare dentro il potere»

«Agli inizi degli anni Novanta ci sono pochissimi siti web, alla fine di quel decennio superano il mezzo milione nel mondo. Il 23 maggio del 2000 metto in rete Dagospia. Ho 52 anni e la sensazione di aver imboccato un’autostrada. Ovviamente digitale». Roberto D’Agostino racconta la sua avventura con Dagospia, «lo specchio del paese». Lo fa in un’intervista su Robinson, l’inserto della domenica dedicato alla cultura su Repubblica. Guai a dire che sono pettegolezzi. «Il “pettegolezzo” è il cavallo di Troia per entrare dentro le mura del potere finanziario, politico, culturale». «Uno dei miei testi sacri – racconta – è La società dello spettacolo. L’estensione di quel discorso l’ho trovato ne La società trasparente di Gianni Vattimo. Fu tra i primi in Italia a parlare dell’estetizzazione dell’esistenza».

La vita di Dago

«Nasco a Roma, quartiere popolare di San Lorenzo. Padre saldatore e madre bustaia. Non avevo nessuna ambizione tranne divertirmi ascoltando musica e leggiucchiando. Divento amico di Paolo Zaccagnini, un po’ più grande di me. Insieme cominciamo a frequentare le discoteche, in particolare il Piper. Non avevamo la macchina. Arrivavo al Piper con la circolare rossa», racconta D’Agostino. «Mio padre si ammala e gli tolgono un polmone. Deve smettere di lavorare. E tocca a me portare a casa i soldi che servivano. Nel 1968, su raccomandazione implorata da mia madre, quando tutto il mondo giovanile esplode, io entro in banca». «Il primo giorno – racconta è terribile. Mentre sono allo sportello che maneggio mazzette di banconote, vedo oltre la fila una donna che piange. È mia madre: mi guarda felice tra le lacrime che le scendono dal volto. A quel punto mi dico: chi sono io per sputare nel piatto in cui mangio e do da mangiare. Era l’Italia del posto fisso. Sono rimasto in banca per 12 anni a contare i soldi. Un bell’esercizio di etica del lavoro». La sua vita continua comunque.

Oltre al lavoro faceva il dj, frequentava l’università. Viene scelto nel 1965 per la claque a Bandiera gialla, la trasmissione radiofonica condotta da Renzo Arbore e da Gianni Boncompagni. Vent’anni dopo è il lookologo a “Quelli della notte”. «Discettavo sui trend sociali e di costume. È lì che mi invento il tormentone su L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. Ogni settimana sventolavo questo romanzo, pubblicato da Adelphi, la più sofisticata casa editrice italiana, come fosse il calendario di Frate Indovino. Successo clamoroso, intendo per il libro». Poi è tempo di Dagospia. Una chiave per capire il potere secondo il fondatore. «Quello vero, come mi insegnò Cossiga quando tutti lo consideravano pazzo, non si vede. Non appare sui giornali o in tv. Lì recitano i burattini. I burattinai stanno dietro, silenti. Lo formano e lo consolidano le tante caste che esistono in Italia. Difficili da scalzare», spiega. Ed ecco che Dago è «il segno dei nostri tempi, ma non lo chiamerei nichilismo, piuttosto direi un gioco che si nutre di sberleffi. Una recita a soggetto dove il crudele e il ridicolo camminano fianco a fianco. L’esperienza ludica nasce nelle corti rinascimentali, quando l’individuo capisce che il mondo può essere interpretato come un grande gioco». Un sito arbasiniano. Ovvero Alberto Arbasino, scrittore espressionista, facente parte del Gruppo 63. «Per me Fratelli d’Italia (opera di Arbasino, non il partito ndr) resta il più grande libro di gossip mai scritto».