De Masi: “Ora Conte sia radicale e rappresenti gli ultimi”

(DI DOMENICO DE MASI – Il Fatto Quotidiano) – “Nessuno è così poco perito nell’arte di governare come chi è perito in tutt’altra cosa”. Questo diceva Luigi Einaudi e questo deve avere ripetuto a se stesso Mario Draghi in questi giorni convulsi, pentendosi amaramente di avere accettato un anno fa di azzoppare Giuseppe Conte e di cacciarsi nel pasticcio di un governo sconclusionato che gli ha precluso il Quirinale, giusta ciliegina sulla torta sontuosa della sua carriera di banchiere. Due volte azzoppato da Conte, come presidente della Repubblica e come presidente del Consiglio, deve aver capito che neppure un grande esperto di finanza come lui può bloccare lo spread, l’inflazione, la precarietà e la pandemia se non è fornito delle doti politiche che possono dare le ali anche a un Paese azzoppato. Intanto Conte, che gli stessi laudatores di Draghi si erano affrettati a dichiarare inadeguato al compito di traghettare i 5Stelle dallo stato pulviscolare di movimento a quello solido di partito, si è mosso in questa direzione nei tempi e nei modi che gli stanno dando ragione. Nel febbraio 2021, quando dovette abbandonare la Presidenza del Consiglio, molti gli attribuivano l’intento di creare un suo partito e i sondaggisti gli assegnavano un 7-8% di elettorato. Per fare un nuovo partito ci vogliono soldi, tempo, alleanze, protettori, che comportano debiti, subordinazioni, riconoscenze e vincoli. Conte invece comprese che il partito, almeno in forma potenziale, ce l’aveva già ed era il Movimento di Grillo e Casaleggio.

Occorreva depurarlo di tutti gli oppositori e dargli una struttura organizzativa. Operazione onerosa, rischiosa e snervante. Ma, se fosse riuscita, avrebbe portato sulla sponda partitica una buona percentuale dei movimentisti assicurandone la leadership a Conte. Oggi i sondaggi danno i 5Stelle al 12%. Se escono dal governo, Di Battista torna all’ovile portando con sé un 3% e il partito si piazza al terzo posto nello scacchiere elettorale italiano. In tutta la sua vita, Craxi non ha mai superato quel 14% che Conte è riuscito ad assicurarsi in soli quattro anni. Salvini e Draghi gli hanno fatto due grandi regali: l’uno portandogli via la parte più conservatrice del suo elettorato, l’altro liberandolo di 61 draghiani. Ora Conte può procedere verso il consolidamento e il posizionamento del nuovo partito, anche perché le circostanze hanno consentito di chiarire i rapporti con Grillo e di far capire al garante chi sono i sodali e chi sono gli inaffidabili. A questo punto restano due o tre problemi da risolvere. Anzitutto elaborare un paradigma sociopolitico in cui si definisca con chiarezza il modello di società che si intende costruire e cosa lo diversifica dai modelli che i partiti concorrenti vanno esibendo. Qualcosa c’è già nello Statuto del nuovo Movimento, ma occorre pervenire a una definizione più geniale e radicale. Questa operazione, indispensabile e culturalmente ardua, richiede l’apporto dei maggiori cervelli disponibili nel contesto politologico e il coinvolgimento di una base quanto più ampia possibile.

Allo stesso tempo, occorre decidere quale segmento di società si intende eleggere come proprio riferimento. Oggi la borghesia alta e media trova rappresentanza, voce e protezione in un numero esorbitante di partiti e partitini. Ciò che resta totalmente inerme e indifesa è una massa composta da 5,7 milioni di poveri assoluti e 7 milioni di poveri relativi, che nel prossimo autunno è destinata a gonfiarsi ulteriormente e che, se non intercettata da un partito decisamente di sinistra, finirà per ingrossare la marea dei non votanti o per disperdersi persino nei partiti confindustriali. Il governo Draghi ha allargato la forbice delle disuguaglianze non solo per quanto riguarda il reddito, ma anche per quanto riguarda il potere, il sapere, le opportunità e le tutele. Un partito che vuole porsi alla testa di tutti gli svantaggiati non può non imprimere una radicalità al suo stile comunicativo e operativo. Occorre cioè un accorto dosaggio di anima istituzionale e di anima movimentista. Anche De Gasperi, lungi dall’ostacolarlo, valorizzò La Pira; anche Togliatti valorizzò Paietta; anche la Chiesa ha valorizzato Don Milani e la teologia della liberazione. Una volta definito il popolo di riferimento, espresso un paradigma politico corrispondente ai problemi strutturali e culturali di quel popolo, creata una macchina organizzativa coesa ed efficiente, apparirà chiaro chi sono i nemici da combattere e chi gli alleati con cui procedere. Allo stato dei fatti, è molto difficile aggregare un campo largo in grado di sconfiggere le destre entro pochi mesi. Se l’impresa riuscisse, tanto meglio. Ma, se fossero le destre a vincere la prossima tornata elettorale, allora si prospetta una lunga marcia di almeno quattro anni per recuperare il tempo che si è sciaguratamente perso finora.