Emergenza Pronto Soccorso: chi ci assisterà se avremo bisogno di cure urgenti?

(di Maria Giovanna Faiella – corriere.it) – Sono state oltre 18 milioni le richieste di assistenza al Pronto Soccorso nel 2023 e in più di un caso su cinque si poteva evitare. Tornano a crescere da più di un anno gli accessi nelle strutture di emergenza e urgenza dopo il calo negli anni della pandemia, a fronte di una riduzione del personale sanitario, con una carenza di quasi 5 mila medici e 10 mila infermieri. E coi professionisti in servizio costretti a turni massacranti in un’area in cui, oltre alle competenze, occorre anche lucidità poiché arrivano pazienti in condizioni anche a rischio di vita. Per coprire i turni, si fa ricorso anche a medici non specializzati in medicina dell’emergenza professionisti cosiddetti «a gettone».

Le prospettive per il futuro non sono incoraggianti anche perché c’è una fuga dalla medicina di emergenza urgenza dei giovani neolaureati. Intanto, i Pronto Soccorso della maggior parte degli ospedali italiani continuano a essere sovraffollati, con pazienti anche anziani che rimangono sulle barelle per giorni, in attesa che si liberi il posto letto in reparto per il ricovero. Condizioni non solo poco dignitose per persone con patologie critiche ma che mettono a rischio la vita stessa, come dimostrano studi scientifici.

Ma che cosa sta succedendo? Chi ci curerà se avremo bisogno di cure urgenti? Quali misure si stanno adottando? E cosa può fare ciascuno di noi?
Se è vero, infatti, che il Pronto Soccorso è l’unico avamposto della sanità pubblica aperto 365 giorni l’anno, giorno e notte, e nessuno esce senza una risposta al proprio bisogno di salute anche se attende giornate intere, dobbiamo anche noi utilizzarlo solo quando è davvero necessario.

Codici verdi e bianchi

Il Pronto Soccorso, si sa, è il servizio dedicato alle emergenze sanitarie, spontanee o traumatiche, che necessitano di interventi immediati.
L’anno scorso su oltre 18 milioni di accessi alle strutture di emergenza urgenza, 12 milioni di pazienti (il 68%) hanno ricevuto, dall’infermiere addetto al triage, un codice verde (urgenza minore) o bianco (non urgente). Tra questi, secondo un recente studio di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, 4 milioni di assistiti avrebbero potuto evitare di rivolgersi alle strutture di emergenza urgenza per i loro disturbi, curabili dal proprio dottore, dal medico di continuità assistenziale (ex guardia medica) o presso l’ambulatorio della Asl.
Osserva Andrea Fabbri, dell’ufficio di presidenza della Società italiana della medicina di emergenza urgenza (Simeu) e direttore dell’Unità operativa  Pronto Soccorso, medicina d’urgenza e 118 dell’ospedale di Forlì: «Il Pronto Soccorso è il luogo dove si trattano le emergenze e si fa di tutto per salvare la vita a chi rischia di perderla, ma negli ultimi anni è diventato sempre più il posto dove si cercano risposte ai propri bisogni di salute che non si trovano altrove».

Cure urgenti non gravi sul territorio

Per esempio, continua il dottor Fabbri, «i pazienti a bassa criticità e a bassa complessità di percorso potrebbero essere visitati non nei servizi di emergenza e urgenza ma in strutture prossime al Pronto Soccorso, come succede in tutto il mondo e si sta cercando di fare in Emilia Romagna con i Cau (Centri di assistenza e urgenza), dove si curano le persone con problemi di salute urgenti ma non gravi».
Il potenziamento della medicina territoriale in atto dovrebbe anche garantire adeguata assistenza, fuori dall’ospedale, a chi ha problemi urgenti cosiddetti «minori».

Carenza di personale e di posti letto nei reparti

Ma il sovraffollamento nell’area dell’emergenza urgenza va attribuito ad altri motivi, come spiega il dottor Fabbri: «I mali del Pronto Soccorso non dipendono, principalmente, dai codici bianchi e verdi all’ingresso, tra i quali, peraltro, possono nascondersi problemi anche gravi – per fortuna pochi – che richiedono il ricovero; ma sono dovuti soprattutto alla carenza di personale e di posti letto nei reparti, che non possono accogliere i pazienti da ricoverare dopo essere stati stabilizzati al Pronto Soccorso».
«Da anni denunciamo il cosiddetto boarding, cioè la permanenza in Pronto Soccorso, in molti casi in barella, di pazienti già critici e spesso anziani, in attesa di un posto letto per il ricovero – interviene il presidente Simeu, Fabio De Iaco, direttore del PS dell’ospedale Maria Vittoria di Torino – . Trovare il posto letto non è compito del Pronto Soccorso, che non è un’organizzazione autosufficiente, ma dell’intero ospedale».

«Mai più sulle barelle»

Eppure, la riforma del Pronto Soccorso avviata nel 2019, in gran parte disattesa, prometteva: «Mai più pazienti lasciati giorni sulle barelle». E il nuovo approccio di sistema prevedeva che la gestione del sovraffollamento non sia solo un onere del PS ma che debba farsene carico l’intero ospedale, con tutti i reparti chiamati a evitarne l’intasamento. Con l’approvazione in Conferenza Stato-Regioni di tre documenti – Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, sull’Osservazione breve intensiva (Obi) e sulla gestione del sovraffollamento – le Regioni si erano impegnate a recepire l’Accordo entro febbraio 2020 e a renderlo operativo entro 18 mesi dalla data di approvazione. Poi è arrivata la pandemia e, in molti casi, si è interrotto il passaggio al nuovo modello organizzativo che si stava svolgendo gradualmente; basti pensare che in alcune Regioni i Pronto Soccorso ancora oggi non hanno adottato i nuovi codici di priorità, che sono cinque(si veda il grafico) e non più quattro come in passato.

Riforma disattesa, ma indicazioni tuttora valide

«Quei documenti sottoscritti da Stato e Regioni sono ancora validi e indicano soluzioni tuttora utili, che andrebbero applicate» sottolinea il dottor Fabbri.
Tra le misure raccomandate: l’adozione in ogni azienda sanitaria e ospedaliera di un piano per la gestione del sovraffollamento, requisito per l’accreditamento regionale del Pronto Soccorso dell’ospedale; il servizio di Bed management per facilitare i ricoveri e le dimissioni; il monitoraggio dei tempi di esecuzione e refertazione di esami di laboratorio, radiologici, consulenze al fine di ridurre i tempi di permanenza in Pronto Soccorso, un’«adeguata dotazione organica di personale nella rete dell’emergenza urgenza»; mettere a disposizione del Pronto Soccorso un numero di posti letto in area medica e chirurgica, in condizioni di iperafflusso, come succede, per esempio, nella stagione invernale.
In generale, però, i piani per la gestione del sovraffollamentoin Pronto Soccorso non prevedono un aumento di posti letto ma soluzioni come la riconversione temporanea di una quota di “letti”, di solito dell’area chirurgica, a favore di quella medica.

Per i turni ricorso a «gettonisti»

Quanto alla carenza di personale nei Pronto Soccorso, secondo le stime di Simeu e della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), mancano rispettivamente almeno 4.500 medici e 10mila infermieri. E, per coprire i turni, si fa ricorso anche a medici non specializzati in medicina dell’emergenza, a cooperative di servizio o professionisti «a gettone».
Avverte il dottor De Iaco: «Si sta liberalizzando il rapporto col Servizio sanitario nazionale con differenti tipologie contrattuali e di orario (a volte irrisori, per esempio 6-12 ore a settimana), producendo così una continua frammentazione delle risorse professionali che lavorano in PS e riducendo la capacità di governo di queste strutture» sottolinea il presidente Simeu.

Fuga dall’emergenza urgenza

Nell’ultimo anno, secondo i dati di Simeu, a fronte di 567 nuovi ingressi di medici dell’emergenza urgenza nei Pronto soccorso, se ne sono persi 1.033: di questi, circa 700 sono andati in pensione o si sono dimessi perché hanno scelto di lavorare nel privato o di passare alla medicina generale; circa 300 trasferiti ad altri reparti ospedalieri. In pratica, solo il 55% dei fuoriusciti è stato sostituito.
E poi: le borse di specializzazione in Medicina d’emergenza urgenza non «attraggono» i neolaureati. Nel 2023, una borsa su due non è stata assegnata. I motivi? Turni massacranti, aggressioni, elevato contenzioso legale non incoraggiano i giovani a intraprendere la professione.

Pronto soccorso privati (si paga): ma lo sono davvero?

Si stanno diffondendo, prevalentemente al Nord, Pronto Soccorso privati, quindi a pagamento. Sono davvero servizi di emergenza urgenza? «Attenzione a definirli Pronto Soccorso — avverte il dottor De Iaco,  —. In generale sono ambulatori ad accesso diretto, che possono definirsi “a rapida attesa” o “per codici minori”; infatti, molti stanno cambiando denominazione. Quando si entra in un Pronto Soccorso pubblico – sottolinea il presidente Simeu –  è possibile usufruire gratuitamente di tutte le prestazioni del Servizio sanitario nazionale. Per esempio, se il paziente ha mal di stomaco ma si scopre che ha l’infarto, la continuità dell’intervento terapeutico è garantita; in un cosiddetto “Pronto Soccorso privato” o firma e paga tuttoammesso che la struttura garantisca prestazioni necessarie come la coronarografia eseguita in urgenza, o esce e si rivolge al Pronto Soccorso pubblico, ricominciando il percorso».

Sperimentazione in Emilia Romagna: i Cau (strutture pubbliche)

In Emilia Romagna si stanno diffondendo i Centri di assistenza e urgenza (Cau), strutture territoriali ad accesso diretto dove possono essere visitati, giorno e notte, pazienti con problemi di salute urgenti ma non gravi, per esempio lievi traumatismi, ferite superficiali, coliche, lesioni agli arti, eritemi. Nascono nell’ambito del Piano di riorganizzazione della rete regionale dell’emergenza urgenza, per la gestione dei casi di bassa complessitàDa novembre 2023 al 16 aprile 2024 sono stati già aperti 33 Cau (ne sono previsti altri 30) – distribuiti in modo capillare sul territorio – e visitati oltre 132 mila pazienti, principalmente per disturbi generali, traumi, problemi ortopedici, respiratori, dermatologici, gastrointestinali, cardiovascolari. Si attendono in media 44 minuti per la visita.

I Centri, in generale ubicati vicino a ospedali o nelle Case della Comunità, sono dotati di personale medico e infermieristico (in qualche caso anche operatore sociosanitario), strumenti per la diagnosi (esami di laboratorio, imaging), di supporto di specialisti anche con telemedicina. I residenti e domiciliati che hanno scelto il medico di famiglia in Regione non pagano il ticket; gli altri pagano 20 euro per la visita e le prestazioni erogate. A breve sarà attivato il Numero unico europeo per cure non urgenti: chiamando il numero 116117, gli operatori valuteranno il bisogno di salute del paziente e lo orienteranno verso il Cau o altre strutture adeguate.

Dice Luca Baldino, direttore generale Cura della persona, Salute e Welfare dell’Emilia Romagna: «Dal confronto dei dati sugli accessi al Pronto Soccorso di Piacenza nei tre mesi precedenti alla nascita del Cau e i tre mesi successivi, risulta che gli accessi con codici bianchi in PS erano 2.071 prima del Centro, 379 dopo tre mesi. Anche i codici verdi sono passati da 11.122 a 6.956. Si tratta di dati preliminari che vanno verificati nel tempo».
Se i risultati saranno confermati a lungo termine, potrebbe essere un’esperienza replicabile anche in altre Regioni.

Quando non serve correre in ospedale

In quali casi non è corretto andare al Pronto Soccorso per risolvere i propri problemi di salute? Agenas ha provato a dare una definizione di accessi «impropri», cioè evitabili: sono quei casi di pazienti cui è stato assegnato il codice bianco o verde – esclusi i traumi – che arrivano in modo autonomo al Pronto Soccorso o sono inviati dal medico di famiglia, in giorni feriali o festivi in orari diurni (dalle 8 alle 20) e che alla fine del percorso al PS ritornano a casa o sono inviati a strutture ambulatoriali.

Spiega Maria Pia Randazzo, responsabile Unità operativa statistica e flussi informativi sanitari di Agenas: «È un fenomeno presente in tutte le regioni e in tutte le strutture. Secondo i nostri calcoli, è stato “improprio” circa il 22% degli accessi totali in Pronto Soccorso nel 2023, pari a oltre 3,9 milioni».
Si tratta di pazienti soprattutto uomini, di età compresa tra i 25 e i 64 anni, ma anche bambini. Nel 50% dei casi hanno richiesto cure per disturbi generici, seguono sintomi oculistici, dolori addominali aspecifici, disturbi ginecologici, otorinolaringoiatrici, febbre.

Case della comunità e Ospedali di comunità

Agenas ha poi effettuato una serie di simulazioni in alcuni ospedali e verificato che, eliminando gli accessi impropri, presi in carico sul territorio nelle Case della Comunità, si alleggerisce il carico di lavoro dei Pronto Soccorso.
Del resto, la riforma dell’assistenza territoriale, delineata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), prevede tra l’altro l’implementazione su tutto il territorio nazionale di strutture di prossimità quali le Case della comunità (almeno 1.038 rinnovate e attrezzate tecnologicamente entro il 2026) e gli Ospedali di comunità (almeno 307 entro il 2026), per migliorare la presa in carico soprattutto di persone in condizioni di cronicità e fragilità con bisogni anche socioassistenziali, nonché di pazienti che necessitano di interventi sanitari a media e bassa intensità clinica, oppure di brevi ricoveri prima di ritornare a casa dopo le dimissioni dall’ospedale per acuti.

Come usare (bene) il Pronto Soccorso. Significato dei 5 codici

Se si ha bisogno di soccorso immediato in situazioni di emergenza e urgenza – come malore improvviso, evento acuto, incidente – che possono provocare gravi conseguenze o mettere in pericolo la vita stessa, bisogna chiamare il 118 (o 112) o recarsi al Pronto Soccorso. Va ricordato che le visite non si effettuano per ordine di arrivo ma in base alla gravità delle condizioni, quindi viene assegnato il codice di priorità da un infermiere esperto in triage.

I codici sono cinque e non più quattro come in passato (in qualche Regione si usa ancora il codice «giallo» invece che i codici «arancione» e «azzurro» ndr):
– codice 1 (rosso) che indica «emergenza» e pericolo di vita, quindi priorità massima con ingresso immediato in sala visite;
– codice 2 (arancione) per le urgenze (potenziale pericolo di vita);
– codice 3 (azzurro), «urgenza differibile»;
– codice 4 (verde), «urgenza minore»;
– codice 5 (bianco), che indica «non urgenza».
Per i codici bianchi non seguiti da ricovero si paga, per legge, una quota fissa di 25 euro (ticket variabile a seconda delle Regioni).
Per problemi di salute in giorni festivi e prefestivi o di notte – quando il medico curante non è in servizio – e per i quali non si può aspettare, si contatta la guardia medica o si va nelle Case della Salute.
Il Pronto Soccorso non va usato per «saltare» liste d’attesa per visite specialistiche ed esami diagnostici.