Giustizia nel caos, Reggio 2005. Quando il Gattopardo ha “messo mano” ai pm antimafia

Luigi De Magistris l’ha messo nero su bianco ormai più volte riferendosi al suo allontanamento da Catanzaro. “Hanno cacciato chi aveva scoperto un sistema criminale spaventoso, fatto di corruzioni, mafie e massonerie deviate ed hanno lasciato i collusi liberi di continuare ad operare indisturbati. Nel frattempo la Procura di Salerno andava avanti nelle indagini e nel dicembre del 2008 effettuava delle perquisizioni in Calabria ricostruendo quel sistema criminale che aveva operato per togliermi le indagini e distruggere la vita professionale mia e dei miei più stretti collaboratori.

Venivano indagati numerosi magistrati (tra cui il Procuratore della Repubblica, il Procuratore Aggiunto, il Procuratore Generale), politici, uomini delle istituzioni, professionisti. La Procura di Salerno aveva ricostruito tutto minuziosamente, effettuava perquisizioni e sequestri e succedeva qualcosa che non era mai accaduta prima nella storia della Repubblica. I magistrati indagati indagano chi indaga su di loro e sequestrano quello che i magistrati di Salerno avevano sequestrato. Come se i ladri che vengono scoperti a rubare in una gioielleria arrestano i poliziotti che li stanno per arrestare…”.

Mario Spagnuolo

Si tratta di Mariano Lombardi, procuratore della Repubblica – passato a miglior vita -; di Mario Spagnuolo, procuratore aggiunto – oggi procuratore capo a Cosenza – e Domenico Pudia, procuratore generale, ndr

Fin qui il pensiero di De Magistris. Non c’è dubbio che i tre magistrati calabresi citati nel suo racconto abbiano avuto responsabilità gravissime. Ma non è finita qui perché questi tre signori avevano già dato sfoggio delle loro qualità. Gli ispettori del ministero della Giustizia all’epoca di Castelli Guardasigilli, avevano richiesto il trasferimento d’ufficio del procuratore capo di Catanzaro, Mariano Lombardi, per incompatibilità ambientale e funzionale. Stesso procedimento era stato richiesto anche nei confronti del procuratore aggiunto Mario Spagnuolo, alias il Gattopardo, per il quale gli ispettori di Via Arenula avevano sollecitato anche un provvedimento disciplinare per aver trattato procedimenti antimafia non di sua competenza.

E ancora, un procedimento disciplinare era stato avanzato per il procuratore generale della corte d’Appello catanzarese, Domenico Pudia. L’ispezione ministeriale era iniziata nel settembre 2003, e verteva sui condizionamenti processuali nei confronti di alcuni pm antimafia di Reggio Calabria, e sulle “anomalie” gestionali di alcuni uffici per l’assegnazione di procedimenti presso la procura di Catanzaro. A monte c’era una querelle sulle presunte “funzioni straordinarie” esercitate da Spagnuolo su delega del suo superiore Lombardi. Querelle legata all’interpretazione dei criteri di applicazione delle disposizioni che consentivano proprio a Spagnuolo di dirigere, coordinare e delegare la Dda di Catanzaro sul fronte mafia e terrorismo. L’arrivo di Clemente Mastella al Ministero della Giustizia aveva poi insabbiato tutto e creato le premesse per quanto sarebbe accaduto a De Magistris. Ma tutti i dettagli vengono spiegati in questo dettagliato articolo di Carlo Bonini.

Calabria, duello finale con i pm

di Carlo Bonini

Fonte: Repubblica 18 ottobre 2005

Per capire che fine ha fatto lo Stato in Calabria, con quale fardello di veleni e ipocrisie comincia la caccia agli assassini di Francesco Fortugno, si può cominciare dalla fine. Da quello che accadrà domani in via Giulia. Quando i cinque magistrati calabresi cui il governo chiede oggi di venire a capo di «un atroce e insopportabile delitto» saranno a Roma, a consulto negli uffici della Procura nazionale antimafia. Ognuno di loro è un prigioniero: il procuratore della Repubblica di Catanzaro Mariano Lombardi; il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Antonio Catanese; il procuratore aggiunto di Catanzaro Mario Spagnuolo; il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Francesco Scuderi; il sostituto procuratore distrettuale di Catanzaro Gerardo Dominjanni.

Su ognuno di loro pesa, a titolo e in modo diverso, la sfiducia di un pezzo dello Stato, il fantasma di un sospetto. Per gli ispettori del ministro di Giustizia Castelli, Mariano Lombardi e Mario Spagnuolo non dovrebbero restare un solo minuto di più negli uffici che occupano. Le conclusioni di un’ ispezione ministeriale trasmesse recentemente al Csm ne raccomandano il trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale. Per aver messo mano a «procedimenti antimafia che non avrebbero dovuto o potuto trattare». A cominciare da quello che un anno fa afferrò il sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino (Alleanza nazionale) e il vicepresidente della commissione antimafia Angela Napoli (Alleanza nazionale), svelandone malaccorte conversazioni telefoniche con opachi figuri inquisiti per ‘ndrangheta.

Tra i veleni si sono mossi e si muovono anche Antonio Catanese e Francesco Scuderi. Sono stati interrogati dal loro collega Spagnuolo per dare conto di come venga amministrata la giustizia negli uffici della Procura di Reggio che dirigono. Con quali criteri vengano assegnate o ritirate le deleghe a quei pubblici ministeri che si avventurano sullo scivoloso terreno delle inchieste sui rapporti tra ‘ndrangheta e politica. Ma con Spagnuolo ha un antico conto aperto anche Gerardo Dominjanni (oggi in attesa di distacco al ministero di giustizia). A Catanzaro, dove è stato procuratore aggiunto, contestò la nomina del collega, la sua legittimità, i poteri che così gli venivano riconosciuti sui magistrati di Reggio.

Guido Calvi, senatore Ds e membro della commissione antimafia, osserva: «In Calabria, l’ intero apparato di contrasto alla ‘ndrangheta, a cominciare dalla magistratura, si è letteralmente dissolto. E per questo abbandono tutti sono responsabili. Non esistono innocenti». La Procura di Reggio è ridotta a un simulacro. Negli ultimi sette anni, hanno mollato undici pubblici ministeri: Giovanni Taglialatela; Stefano Billet; Luca Palamara; Alessandra Provazza; Ettore Squillace Greco; Giuseppe Verzera; Roberto Pennisi; Alberto Cisterna; Vincenzo D’ Onofrio; Barbara Zuin; Federica Ormanni…

Impossibile depositare conoscenze investigative. Illusorio assicurare una continuità di lavoro. Favolistico ritenere di poter chiudere entro i tempi della prescrizione i processi arrivati a dibattimento. Per chi resta, è un lento sprofondare nei fanghi e nei miasmi di uffici giudiziari stretti tra l’ intimidazione delle cosche, sordi conflitti interni e una violenta resa dei conti di segno politico che ha trovato varchi al ministero di giustizia e in Parlamento.

Delle ispezioni disposte da Castelli alla Procura di Catanzaro, si è detto all’ inizio. Ma di un conto aperto tra un pezzo della maggioranza di governo – a partire da Alleanza nazionale – e i magistrati calabresi è testimone anche l’ interrogazione dell’ agosto scorso con cui il senatore Giuseppe Bucciero ha chiesto a Castelli la testa del pubblico ministero di Catanzaro Luigi De Magistris, titolare di inchieste sull’ ex presidente della regione Giuseppe Chiaravalloti e ora accusato di «colpire deliberatamente con lo strumento giudiziario settori della vita pubblica di cui non condivide le scelte politiche».

Sull’ orlo di questo pozzo nero, danza il Consiglio superiore della magistratura. A palazzo dei Marescialli, il centro-destra ha già bocciato la proposta di aumento degli organici della Procura di Catanzaro e la nomina a procuratore aggiunto di Spagnuolo. Mercoledì ne tornerà a discutere e non è difficile immaginare l’ esito. Verosimilmente, non ci sarà tempo di discutere come debba e possa essere amministrata la giustizia in Calabria. Ne guadagnerà soltanto la sindrome da assedio che segna quegli uffici giudiziari. Con il risultato di renderli ancor più prigionieri, nel loro lavoro e nelle loro parole, della cupa ossessione che in Calabria tutto sia espressione di ‘ndrangheta. La politica che cerca vendetta, le imprese e la pubblica amministrazione che – come ancora di recente ha osservato la Confindustria – per il fatto stesso di lavorare in quella terra disgraziata e non avere la forza di denunciare le intimidazioni di cui sono vittime non per questo sono o devono essere espressione della mafia che le ricatta.