Gli appalti sono una montagna di merda

Gli appalti sono una montagna di merda

Ad oggi quello che sappiamo riguardo alla strage operaia di Firenze è che in un fazzoletto di cemento – stiamo parlando di un supermercato – erano presenti 35 ditte e 60 subappalti. Sappiamo che la prima ipotesi – tutta da verificare, va da sé – non è che ci sia stato un cedimento dei materiali, ma un errore “di processo”. Una delle ditte avrebbe iniziato la colata di cemento quando un’altra non aveva ancora fissato la trave. Ragione per cui “sotto la lente degli inquirenti è finita proprio la complessa filiera di appalti e subappalti” (Ansa).

35 ditte, 60 subappalti, sono un inno all’errore, allo spreco, all’ inefficienza. Una simile giungla è prima di tutto incompatibile con la fluidità del processo produttivo. È una moltiplicazione inutile di direttive, piccole gerarchie, spese amministrative. Un sistema che si autoproclama tendente alla massima efficienza dovrebbe tendere alla semplificazione.

Il punto è che in questo sistema obiettivo del lavoro non è il lavoro di per sé, non la sua materialità, non la sua qualità. L’ obiettivo è la profittabilità del lavoro. E ciò che appare inefficienza, in verità è il meccanismo necessario alla realizzazione del massimo profitto. E ciò che appaiono costi inutili, sono in verità un investimento con il suo ritorno ben calcolato.

Si investe consapevolmente sullo spezzettamento del lavoro. Questo non solo garantisce salari più bassi oggi, ma li garantisce domani e dopodomani. Non solo garantisce di comprimere il numero di assunzioni, ma spezza alla base il concetto stesso di contratto a tempo indeterminato, giacché di fatto ogni rinnovo di appalto è potenzialmente una perdita di lavoro.

Ancora più di questo, ciò che l’ appalto produce è una maggiore difficoltà a conoscere il processo produttivo, il diritto contrattuale. E più di ogni altra cosa produce una difficoltà a conoscersi e riconoscersi tra pari. In poche parole, è un potente strumento di disumanizzazione.

Chiunque abbia mai lavorato a contatto con appalti non può non avere notato lo strano funzionamento della psicologia umana. Non solo dove la prestazione è saltuaria, ma anche quando si tratta di lavoratrici/lavoratori che lavorano quotidianamente sotto lo stesso tetto, contribuendo alle diverse funzioni necessarie per la riuscita del lavoro, fissi, precari, appaltati, subappaltati tendono a non riconoscersi come parte di una unica funzione.

Giacchette diverse, contratti diversi, punti di accesso diversi, diritti basilari negati per alcuni – come lo spogliatoio o la mensa ad esempio – che diventano privilegi ad occhi di altri, direttive diverse, contrastanti, scarica barile continuo tra livelli decisionali lasciando poi spesso i lavoratori a prendersela tra di sé: tutto questo a discapito di qualsiasi basilare logica dell’organizzazione del lavoro, ma perfettamente in linea con quella del massimo profitto da trarre dal lavoro.

Primo e fondamentale obiettivo: disumanizzare, renderci irriconoscibili tra di noi.

Ora tutti si indignano. Ma provate voi a fare una trattativa con qualsiasi direzione aziendale per una reinternalizzazione di una portineria, di una mensa, di un servizio di pulizie, senza essere guardati come dei piccoli insurrezionalisti.

Che poi questa è la differenza fondamentale. Noi restiamo umani, o almeno ci proviamo, sempre, in ogni cosa che facciamo. Deriviamo la nostra idea di ciò che deve essere un “sistema” dalla materialità della vita, del lavoro, dei molteplici bisogni del nostro corpo e della nostra testa.

Questo è un sistema disumano, che ha bisogno di disumanizzare. E copre la propria ipocrisia dando un nome solo ai morti.

Si conosce i nostri nomi, quanti figli abbiamo, da quale paese arriviamo, solo quando veniamo estratti dalle macerie, in pace come in guerra. Che poi per la nostra classe la pace è solo una guerra con intensità diversa e la ripresa solo una diversa gradazione della crisi.

Dario Salvetti- Collettivo di Fabbrica GKN- le radici del sindacato CGIL