“Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare, che per me non è più mare”

“Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare che, per me, non è più mare”

[Mare, mare, mare]
Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare che, per me, non è più mare.
Guardo il paesaggio e l’orizzonte che incantano con la bellezza pietrificante del mito.
Ascolto le voci urlanti dei bambini mentre, sotto i raggi caldi e festosi dell’estate, si tuffano nelle acque dello Stretto.
Questo, per me, non è mare. Questa è vita. O, forse, lo è stata un tempo.
Sono nato in questo mare, mi è stato compagno nel lungo apprendistato della vita, insieme abbiamo combattuto nelle mie notti più buie.
Ero bambino, la notte della vigilia di Natale del 1984, quando le onde dello Stretto divennero montagne che si schiantavano, una dopo l’altra, sulle spiagge di Catona e Gallico. Ero lì, sulla spiaggia, sballottato dalla furia della natura mentre mio padre cercava di salvare la nostra piccola barca. La fiumara di Gallico rombava scorrendo da sponda a sponda, il vento piegava i Calipsi, mi sentivo niente di fronte alle montagne di acqua che continuavano ad avanzare sulla spiaggia.

I giorni che seguirono, furono giorni di quiete, rispetto e riconciliazione con il mare che era mare.
Con i resti delle barche distrutte sui massi di Gallico, con la memoria ravvivata, con le distanze chiare e ristabilite tra uomini e Natura.
Seguirono anni di calma, menefreghismo e straffottenza. Gli uomini si presero troppa confidernza e ci trovarono gusto.

Arrivò la costruzione di Arghillà e sulla spiaggia, tra i ciottoli, iniziarono ad apparire frammenti di argilla rossa con smalti colorati, nessuno ci fece caso, raccogliendoli, giocando a farli rimbalzare sull’acqua.
Ero lì sulla spiaggia, facevamo a gara per raccogliere frammenti di mattonelle. Sceglievamo i migliori per fare più rimbalzi.

Ero lì mentre le case cubiche crescevano come funghi avvelenati, gli scarichi a mare segnavano irreversibilmente le spiagge bianche, i camping paradisiaci chiudevano i battenti a chi veniva da lontano per immergersi nelle acque cristalline che sapevano sempre di più dell’essenza meno vicina all’Eden.
Sulle spiagge di Catona e Gallico, arrivarono i camion, motocarri e ruspe che inabissarono montagne di metri cubi di materiali di risulta, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature provenienti dalle periferie coperte dalla colata di cemento che assicurò, casa, lavoro, e un futuro a chi era stato da sempre impegnato ad annaspare nel presente di una città dolente, lontana, altèra come una vecchia regina in decadenza.
Alle fiumare non toccò un destino differente.
Divennero discariche di tutte le vergogne umane che, durante l’inverno, seguendo la forza dell’acqua, venivano cedute al mare dello Stretto.
Venne il tempo delle aziende senza depuratori. Scaricarono i liquami direttamente nelle fogne che, confluendo nelle vasche di un depuratore che non ha mai depurato, si combinavano in sostanze tossiche volatili appestando l’aria e la vita.
Ed io ero lì.

Ci furono le promesse di sviluppo portate dal Piano Urban e dalla striscia di asfalto con illuminazione, panchine nuove, marciapiedi con mattoni gialli e piantine di oleandro.
I mattoni gialli sparirono nei bagagliai aperti delle auto di chi aveva bisogno di costruire l’indegnità tipica di chi sogghigna in disprezzo del bene comune.
Con la stessa velocità sparirono le Tre Fontane sacrificate all’asfalto ed alla comodità di viaggiare veloci su una strada senza uscita.
Il lungomare e le spiagge di Gallico, allo stesso modo, vennero sacrificate sull’altare del turismo a parole.
Il Mare che, non è più mare, fece il resto. Si riprese le spiagge.
Spiagge non spiagge concesse per la balneazione per volere, nostalgia, anacronismo proprio di quegli esseri umani che continuano a guardare il tramonto del sole dietro l’Etna, volgendo le spalle alla loro terra, ciechi nel loro presente.

Ho i piedi immersi nella battigia di questo mare che, per me, non è più mare.
Guardo il paesaggio e l’orizzonte che incantano con la bellezza pietrificante del mito. Ascolto le voci urlanti dei bambini mentre, sotto i raggi caldi e festosi dell’estate, si tuffano nelle acque dello Stretto. Qualcuno mi chiede perché non faccio il bagno.

Non lo faccio perché ho visto sparire mia nonna, mia madre, amiche e vicine di casa. Tutte donne. Tutte accomunate dalla stessa storia dopo la malattia. Viaggi della speranza, risparmi di una vita dilapidati nell’inutile ricerca della salvezza e famiglie distrutte dal dolore. Ma dopo i funerali tornava il silenzio come se fosse tutto normale. Come se quelle morti fossero il frutto di colpe e responsabilità da tenere nascoste ognun per sé, dentro le mura delle nostre case.
Non lo faccio perché ho visto quello che la trasparenza dell’acqua nasconde a chi, nonostante tutto, si condanna alla non spensieratezza della replica di una estate eternamente uguale.
A chi, sotto il sole dello Stretto, vuole dimenticare le responsabilità di un presente che è ancora il nostro passato, la terra bruciata dalle nostre vergogne, i morti, quelli nuovi e quelli vecchi.
Tanto, in fondo, anche se tutti conosciamo la verità della nostra condanna.
Quello che non si vede non esiste.

Francesco Tripodi

Fonte: Reggio Tv