Il capo della polizia promuove la legalità insieme a Marcello Mazzetta e don Magorno, i capi della massomafia

Diceva Giovanni Falcone, uno che di mafia se ne intendeva: “Come evitare di parlare di stato quando si parla di mafia?”. 

Ecco, in questa foto è racchiuso il senso di questa frase: il capo della polizia italiana Lamberto Giannini, accompagnato da due personaggi politici borderline, a Diamante, a parlare di legalità: don Ernesto Magorno e Marcello Mazzetta, al secolo Manna, il primo senatore della Repubblica e sindaco di Diamante, il secondo famoso avvocato e sindaco di Rende. Entrambi a rappresentare lo stato e le istituzioni in una iniziativa che avrebbe dovuto parlare di legalità nella terra di uno dei boss più potenti della Calabria: Franco Muto, il re del pesce. E sarebbe stata una buona iniziative se non fosse stato per la presenza di due capi massomafiosi travestiti da “istituzioni” presenti all’iniziativa solo per crearsi un “alibi” e apparire agli occhi della gente come persone oneste che lottano contro la ‘ndrangheta, quella che Falcone definiva “l’antimafia salottiera e di facciata”. Una “tecnica” adottata dalle organizzazioni criminali per confondersi nella società civile e nelle istituzioni mostrandosi come strenui difensori della legalità.

Per capirci. Durante una operazione antimafia i carabinieri intercettarono un boss che consigliava ai suoi picciotti, non solo di partecipare a tutte le fiaccolate contro la mafia, ma addirittura di tatuarsi sul corpo il nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Diceva il boss al picciotto: “Fatti un bel tatuaggio e ci scrivi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, così si risolvono i problemi”. Un vero e proprio oltraggio alla memoria di due eroi italiani, tra i pochi che hanno davvero combattuto la mafia. Spiegava Falcone: “Il dialogo stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela”. E la farsa andata in scena ieri a Diamante è la prova provata che da allora niente è cambiato: i mafiosi continuano a scorrazzare nelle istituzioni omaggiati dallo stato nella persona del capo della Polizia. Roba che neanche in Sudamerica.

Ma vediamoli i personaggi che ieri sono stati osannati dal capo della polizia. Iniziamo con don Ernesto Magorno: era il 19 luglio del 2016 e alle prime luci dell’alba scattò il blitz della Dda di Catanzaro denominato “Frontiera” che portò all’arresto di 58 esponenti del clan Muto. L’operazione interessò gran parte dell’Alto Tirreno cosentino, e porta la firma dell’oramai ex pm antimafia Vincenzo Luberto, allontanato dalla Dda per aver occultato importanti documenti investigativi che riguardavano l’ex parlamentare del Pd Ferdinando Aiello intercettato al telefono dal Ros con due esponenti di spicco della mafia della Sibaritide mentre discutevano di soldi e voti. Una intercettazione che magicamente sparì da tutti i fascicoli, e solo dopo un approfondimento, scaturito da decine e decine di nostri articoli, qualcuno pensò di controllare scoprendo che l’intercettazione era sparita. Per questo il pm Luberto insieme all’ex deputato Aiello sono stati rinviati a giudizio.

Ritorniamo a don Magorno. Qualche giorno dopo il blitz, precisamente tre, la buonanima del direttore Pollichieni in un suo editoriale del venerdì 22 Luglio 2016 dal titolo “Quel parlamentare Pd “a braccetto” con Muto”, raccontava di una intercettazione, sempre ad opera del Ros, che incastrava un noto esponente dell’allora Pd di Renzi, beccato a discutere in macchina con il braccio destro del boss Muto mentre si vantava dei favori fatti al padrino e di essere sempre a sua disposizione. Così scriveva il direttore Pollichieni: “… un autorevole rappresentante del Pd si ritroverebbe in queste ore al centro di indagini della Dda per via dell’assidua frequentazione con un boss della sanità privata cetrarese sospettato di essere intestatario di cliniche per conto dei Muto. Si ha notizia, infatti, di un parlamentare calabrese del Pd che avrebbe scorrazzato per il cosentino utilizzando un’autovettura di proprietà del facoltoso imprenditore privato oggetto delle indagini della Procura distrettuale di Catanzaro (si scoprirà in seguito che il facoltoso imprenditore privato è il proprietario della omonima clinica privata “Tricarico” di Belvedere Marittimo, e l’auto era una Peugeot nera, ndr). Peccato, per il parlamentare, che quella macchina era imbottita di “cimici” piazzate dalla Dda e quindi ecco narrate agli inquirenti, le aspettative del boss, i suoi interessi, la necessità di contare sul territorio. Anche per il trasferimento di una dirigente amica all’interno delle Poste italiane, il boss chiede e il parlamentare esegue…”.

Non solo: “Il Giornale” in un articolo a firma Felice Manti del 31/07/2016, va oltre e fornisce ai lettori l’identik del politico in questione:

“Il politico dem in macchina si sarebbe «aperto» a dichiarazioni pericolosissime e si sarebbe vantato di aver fatto favori agli amici e agli amici degli amici. Di lui si sa che ha avuto (e ha) un importante incarico nel partito e in una delle amministrazioni locali sfiorate dall’inchiesta e che è un renziano della prima ora”.

Ora, non ci vuole Sherlock Holmes per capire che si tratta di don Magorno: Magorno guarda caso è nato proprio a Diamante e risulta l’unico deputato del Pd eletto in quella zona (viene eletto deputato alle politiche del 2013). Si dice che è un renziano di stretta osservanza, e Magorno è un renziano della prima ora. Si dice che ha avuto incarichi dal partito, ed infatti è stato segretario regionale del Pd, si parla di incarichi nell’amministrazione locale e Magorno è stato sindaco di Diamante dal 2007 al 2013, e lo è anche oggi.

E poi c’è la Peugeot nera che taglia la testa al toro perché risultava in uso alla clinica privata Tricarico di Belvedere (che oggi ha cambiato gestione e si chiama Tirrenia Hospital), e a disposizione di Magorno. Se non è di lui che si parla diteci voi chi altro potrebbe essere questo deputato del Pd dell’Alto Tirreno cosentino. Ma nonostante tutto questo, le intercettazioni che riguardano don Magorno spariscono, così com’è successo per l’ex parlamentare del Pd Ferdinando Aiello, solo che per lui sono scattate perquisizioni e rinvio a giudizio, mentre per Magorno no.

La mano che ha fatto sparire le carte è sempre la stessa, quella di Vincenzo Luberto, ex pm antimafia ora assegnato al Tribunale civile di Potenza. Le motivazioni di questa differenza di trattamento tra Magorno e Aiello, noi le abbiamo sempre chieste al dottor Gratteri che non ha mai inteso rispondere. Ma un’idea ce la siamo fatta: Magorno è un renziano di ferro mentre Aiello, pur facendo parte anche lui del “renzismo” è stato “mollato” al pari di Loberto dall’ebetino di Rignano.

Del resto, i rapporti tra Gratteri e Renzi (che lo voleva a tutti i costi ministro della Giustizia del suo governo, proposta bocciata dall’allora presidente della Repubblica Napolitano) sono noti a tutti. Ognuno può farsi la propria idea. Resta il fatto che Magorno è scampato, e non si sa come (espressione retorica), alla rete della giustizia, e oggi si pavoneggia a persona perbene insieme al capo della polizia. La classica storia all’italiana: in galera ci vanno solo i ladri di polli e i nemici degli amici degli amici.

E a dimostrazione che in galera qui ci vanno solo i disgraziati, c’è la storia del sindaco di Rende, Marcello Mazzetta, al secolo Manna. Lo sanno tutti: Manna è stato beccato dai finanzieri, filmato e ascoltato, mentre porgeva una mazzetta nel suo ufficio all’ex giudice della Corte di Appello di Catanzaro, Marco Petrini, già condannato a 4 anni per corruzione, con la richiesta di taroccare la sentenza a trent’anni di un noto mafioso cosentino (già condannato per 416 bis) Francesco Patitucci per l’omicidio del povero Luca Bruni. Cosa che realmente avvenne. Infatti, in un tormentato incidente probatorio, davanti i giudici di Salerno, il corrotto giudice Petrini confessò di aver ricevuto il denaro (in più occasioni) dall’avvocato Manna per taroccare la sentenza di Patitucci. Noi pubblicammo le foto del reato, estrapolando dal video dei finanzieri i fotogrammi che ritraggono il sindaco di rende Manna mentre dona la bustarella al giudice. E per questo subimmo un agguato mafioso. I responsabili dell’agguato sono stati individuati e arrestati dalla polizia e condannati a due anni e quattro mesi di reclusione con l’aggravante mafiosa.

Più prova di così diteci voi: che bisogna fare, per i massomafiosi, per finire in galera? Qui non solo non finiscono in galera anche quando vengono beccati con la pistola fumante, ma addirittura vengono accolti e osannati dal capo della polizia. Che evidentemente non ha problemi a frequentare certi personaggi. Possibile che nessuno dei suoi sottoposti locali abbia informato il capo della polizia sull’opportunità o meno di farsi fotografare con tali personaggi?

È vero che per i finti garantisti non si è colpevoli fino al terzo grado di giudizio, ma in questi due casi la verità giudiziaria conta poco. Qui conta la verità storica e fattuale degli eventi che hanno visto protagonisti i due. Fatti oggettivi come il porgere la mazzetta che restano inconfutabili, come la voce di don Magorno che si vanta con il boss. È quantomeno opportuno tenerli a distanza almeno fino a chiarimento delle vicende. Invece lo stato fa passerella con loro. Aveva ragione Falcone: “Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale”.