La ‘ndrangheta “invisibile”: l’ombra dei servizi segreti e il Dell’Utri calabrese

Il colonnello (poi generale) Francesco Delfino

La ‘Ndrangheta dentro il Sistema criminale: nomi, storie, strategie

di Giorgio Bongiovanni e Miriam Cuccu

Vi stiamo raccontando le ultime evoluzioni della ‘ndrangheta e per farlo siamo partiti da lontano. Perché non è possibile capire la ‘ndrangheta se non si considerano i cosiddetti “invisibili” ovvero quegli insospettabili che l’hanno fatta diventare grande.

PROLOGO

“C’è una che si sa e una che non la sa nessuno, perché se no oggi il mondo finiva; se no tutti cantavano”. Sono le parole di Sebastiano Altomonte, massone considerato personaggio di spicco negli ambienti di Reggio Calabria, intercettato mentre si trovava in auto con la moglie. Parliamo di ‘Ndrangheta, ma non solo. Di massoneria, di politica e molto di più.

Sono gli “invisibili”, quel complesso circuito di personaggi e ambienti che gioca su più tavoli, ma allo stesso tempo si incontra e si accorda nel nome di obiettivi e strategie comuni. Non solo appartenenti a tutte le mafie, Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita, ma anche broker, intermediari finanziari, massoni, politici locali e nazionali, commercialisti e avvocati.

SECONDA PARTE

L’ombra dei servizi segreti

Già negli anni ’70 e ’80 alcune famiglie calabresi, i De Stefano, i Nirta e i Papalia, presero parte a riunioni costanti dentro e fuori dal carcere con appartenenti ai servizi di sicurezza. Parole di Stefano Serpa, ‘ndranghetista affiliato ai Papalia oggi pentito, che nel 2010 depose al processo per la strage di Piazza della Loggia. Uno dei tasselli dai quali emerge il ruolo dei servizi segreti, o quantomeno la consapevolezza, di molti dei grandi misteri della storia del nostro Paese.

Serpa descrisse in particolare la posizione dell’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino (deceduto nel 2014 dopo una lunga carriera segnata da molte ombre), particolarmente legato alle cosche Nirta, Papalia e Barbaro.

“Il colonnello Delfino riceveva da Antonio Nirta informazioni relative ai sequestrati che prelevati nell’hinterland milanese venivano ‘acquistati’ dallo stesso Nirta, dai Papalia, dai Pelle e Barbaro. Sempre il Nirta forniva all’ufficiale informazioni che gli permettevano di liberare i sequestrati. Dopo che questi, nella maggior parte dei casi, avevano già pagato il riscatto. E ove non l’avessero già fatto – continuò Serpa – era il Nirta che acquistava il denaro, non nella misura corrisposta dai familiari dei sequestrati ma in entità inferiore, in quanto il resto andava al colonnello Delfino”.

Il pentito calabrese parla per essere stato depositario delle confidenze del boss Nirta durante il periodo di comune detenzione, aggiungendo che Delfino era “massone con legami alla P2 di Licio Gelli” e che vantava un legame con Paolo De Stefano.

Licio Gelli

La Strage di Piazza della Loggia a Brescia, quella di Piazza Fontana a Milano, il tentato golpe Borghese, la strage sulla linea ferroviaria Firenze-Bologna, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, fino ad arrivare alle bombe del ’92 e ’93… in tanti grandi misteri italiani si intravede l’ombra, più o meno nitida, dei servizi.

Anche se è necessario fare dei distinguo (tra informatori vicini ai servizi ed effettivi appartenenti agli 007) la loro posizione, specialmente in sede investigativa, è sempre stata difficilissima da ricostruire.

Mai completamente invischiati dentro le trame del cosiddetto “sistema criminale integrato” eppure spesso perfettamente a conoscenza di piani eversivi e informazioni riservate, di eccidi orditi con la complicità di più ambienti accomunati dai medesimi interessi, spesso politici. E depositari di informazioni che rischiano di rimanere confinate all’interno dei loro circuiti, anche quando potrebbero avere notevole rilevanza giudiziaria.

Giuseppe Lombardo

“Sono quelli che sanno meglio di tutti. – ha più volte evidenziato il magistrato reggino Lombardo – Spesso e volentieri a mio modo di vedere lavorano per raccogliere informazioni che rimangono esclusivamente all’interno di determinati circuiti, ed è lì il rischio in cui si annidano poi i problemi che cerca di affrontare Palermo in sede processuale, perché è chiaro nella mente del mafioso – ha proseguito il pm – che se viene un esponente di un apparato istituzionale a parlare con te sta trattando. Ecco perchè spesso e volentieri abbiamo gente che nelle udienze sbotta dicendo ‘io ho lavorato per lo Stato e ora lo Stato mi fa processare, dove sono i miei referenti dell’epoca?’, ovviamente i referenti non si trovano mai, questo è il problema. Da questo punto di vista il rapporto tra noi e gli apparati di sicurezza non è di collaborazione. Certo – ha commentato – non hanno quell’approccio trasparente per quanto riguarda il contrasto alle mafie che bisognerebbe avere”.

Il “Dell’Utri” della ‘Ndrangheta

“Invisibile” a tutti gli effetti e considerato ottimo soggetto da piazzare al Parlamento Europeo perché lì, di soldi, ne arrivano tanti. E tanti ne ha fatti girare, realizzando opere pubbliche con tanto di certificazione antimafia alla mano nonostante fosse già condannato per associazione mafiosa. Parliamo di Amedeo Matacena, ex deputato di Forza Italia arrestato a Dubai nel 2013, passato alla storia come uno dei tre deputati che nel 1995 votò contro la conversione in legge del decreto che istituì il 41 bis per i boss mafiosi.

Il suo nome emerge già nella richiesta di archiviazione di “Sistemi criminali”, quando il pentito Pasquale Nucera descrive l’annuale riunione avvenuta a Polsi nel settembre 1991 alla quale partecipava, “seppure defilato, Matacena junior ‘il pelato’”, oltre a esponenti di tutte le mafie e a Giovanni Di Stefano, colletto bianco legato alla mafia siciliana e calabrese vicino a Milosevic “che gestisce il traffico di scorie radioattive e la fornitura di armi militari a paesi sottoposti ad embargo, principalmente la Libia”. Era lui a garantire l’investimento di capitali esteri, grazie anche ai quali veniva finanziato il progetto di scissione in Italia.

Alla riunione, racconta ancora il pentito, si parlò di “un progetto politico” da attuare ricorrendo “ad uomini nuovi per formare un partito che fosse espressione diretta della criminalità mafiosa da portare al successo elettorale attraverso una campagna terroristica”.

Quella alla Madonna di Polsi, prosegue Nucera, “corrispondeva alla riunione delle gerarchie tradizionali della ‘Ndrangheta”, ma queste erano sottostanti ad un “vertice gerarchico molto più ristretto nel cui ambito si prendevano le decisioni strategiche che poi, a Polsi, venivano discusse solo per un rispetto della forma ed al fine di mettere al corrente tutti gli affiliati di quanto, in realtà, veniva deciso altrove”.

Una descrizione che fa il paio con le dichiarazioni di Filippo Barreca, così come di altri collaboratori palermitani, sul “più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘Ndrangheta” al quale “appartengono anche elementi della massoneria deviata e – aggiunge Nucera – anche dei ‘servizi deviati’”.

Come poteva essere ammessa la presenza di Amedeo Matacena a Polsi al cospetto di personaggi di così alto profilo se non fosse stato parte integrante degli stessi circuiti?

Figlio dell’armatore che diede inizio al traghettamento nello Stretto di Messina, l’ambizione di Matacena junior ha fatto sì che fosse fatto su di lui il grande investimento piuttosto che sul padre, uomo di “vecchio stampo” ma grazie al cui capitale Amedeo riesce a farsi spazio in politica. “La sua preoccupazione – ha spiegato il pm Lombardo riferendosi alla vicenda processuale dell’ex deputato di Forza Italia – non è scontare la pena ma la misura di prevenzione che a quella condanna può seguire, in quanto diventa uno straordinaria occasione per me di andare a verificare tutta una serie di relazioni. Matacena da condannato per mafia aveva relazioni con apparati istituzionali ed io ho perquisito nella sua vicenda diversi appartenenti ai servizi”.

Dell’Utri

La sua storia sembra assumere sempre di più gli stessi contorni di quella dell’ex senatore FI Marcello Dell’Utri, anche lui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, entrambi verso il Libano per trascorrere la propria latitanza (Dell’Utri riuscì ad arrivarci anche se poi venne arrestato, Matacena ci provò) e con lo stesso obiettivo perseguito dagli stessi apparati: salvare Matacena e Dell’Utri dal carcere dopo che le condanne per mafia divennero definitive.
“I parallelismi tra la latitanza di Dell’Utri e Matacena sono sconvolgenti nella misura in cui si ha la prova che lì c’è qualcosa di sovraordinato che muove tutti i burattini e dice: ora c’è Marcello da sistemare, tra un mese ci sarà Amedeo, ma tutti verso il Libano, perchè lì ci sono ragioni politiche chiare. Ogni tanto – ha proseguito Lombardo parlando ancora di Matacena – mi manda messaggi pubblici da Dubai, si fa intervistare. Quando sembrò che l’estradizione fosse ormai agli sgoccioli fece sapere al Pd che appena arrivava in Italia sarebbe andato dal dottore Lombardo a dire dove fossero i conti cifrati delle tangenti Telecom”.