È sabato mattina. Cosenza è un vero forno. Alle 9 il caldo già soffoca. Così, libero dal lavoro, decido insieme a un’amica di fare un giro al mare. Destinazione: basso Tirreno cosentino. La via del mare presenta un po’ di traffico: è il primo vero weekend dell’estate. Ma il viaggio scorre liscio. Una volta sulla Statale 18 percorriamo qualche chilometro e decidiamo di fermarci. La spiaggia è già affollata. Il mare si presenta calmo e trasparente. Un richiamo irresistibile. Passiamo qualche ora tra sole e bagni. E un pensiero ci sorge spontaneo: che fortuna vivere in Calabria. Un mare così, dove lo trovi?
Certo, le emergenze ci sono, e ogni anno non mancano le famigerate chiazze marroni che galleggiano a pelo d’acqua. Ma quando questo assurdo e tristemente sottovalutato fenomeno non si manifesta, non ce n’è per nessuno. Siamo ancora a giugno, non c’è ancora il “pienone”, i pozzi neri non sono ancora pieni e le tubature fognarie reggono. Si è fatta ora di pranzo. Mentre ci asciughiamo al sole, diamo uno sguardo sul web alla ricerca di un posto dove mangiare. I ristoranti in zona sono tanti, tutti con menù a base di pesce. Siamo al mare. Leggiamo un po’ di recensioni e alla fine scegliamo un locale con una terrazza vista mare mozzafiato. Le recensioni parlano benissimo. Ci avviamo. Una volta arrivati, l’accoglienza è davvero calorosa e gentile. Ci sediamo sulla terrazza. La vista è davvero stupenda. Tutto lascia presagire una bella degustazione di pesce fresco.
Arriva il cameriere con il menù. Lo apriamo: le proposte sono quelle tipiche della cucina di mare, antipasti con l’immancabile insalata di mare e il crudo di pesce salmone, spaghetti alle vongole, ai gamberi, agli scampi, tagliolini al nero di seppia, pesce spada, grigliate, fritture, cartocci. C’è anche un menù di carne e alcuni piatti classici della cucina italiana.
In ogni pagina del menù, accanto ai piatti, una cosa salta agli occhi: ci sono asterischi. Tanti. Ritorna il cameriere per prendere l’ordinazione. Chiedo: “Linguine agli scampi”.
“Ottimi!” mi risponde. Aggiungo: “Gli scampi sono freschi o decongelati?” Esita. “Un attimo che chiedo”. Ritorna: “Decongelati”. Vabbè, dico e chiedo: “invece i tagliolini al nero di seppia… il nero è fresco o in bustina?” Altra esitazione. “Devo chiedere”. Lo fermo. “Non fa niente. Prendo un secondo”, gli dico.
La frittura gamberi e calamari è contrassegnata con l’asterisco: prodotto surgelato. La grigliata mista, idem. È inutile chiedere. C’è la frittura di paranza, senza asterisco. Chiedo quella. “Devo chiedere”, risponde il sempre più esitante cameriere. Ritorna. “Mi dispiace ma non c’è”. Il polpo alla piastra è surgelato anche lui.
A questo punto chiudo il menù, e gli chiedo: “Cosa c’è oggi in cucina come pescato del giorno?” Nuova esitazione. “Devo chiedere”. Ritorna. “C’è l’orata”. “Pescata o di allevamento?”, gli chiedo. Ennesima esitazione. Va. Torna, e dice: “di allevamento. dall’Adriatico”. Specifico: “c’è qualcosa di fresco locale? Che so: saraghi, triglie, scorfani, seppie, gamberi di nassa, alici, sgombri, merluzzetti, gallinelle, cernia, pesce spatola?”
Non sa. Mi dice che c’è quello che c’è scritto nel menù. Poi, visibilmente scocciato dalle mie continue domande, mi propone una soluzione: “posso chiedere se c’è frittura di alici fresca”. Va. Ritorna. “C’è” dice. “Ok, prendo quella”, rispondo.
La mia amica, dopo aver assistito a tutta questa tarantella, taglia corto e ordina un piatto di gnocchi alla sorrentina. “Non ho voglia di mangiare pesce congelato che possiamo farci a casa ogni giorno”, dice. Ordiniamo quindi: un piatto di gnocchi, una frittura di alici, una porzione di patatine (rigorosamente congelate), una Coca-Cola in lattina, una birra piccola alla spina (calda). Totale: 45 euro. Inutile dire che gli gnocchi della mia amica erano industriali e la mozzarella era quella da pizza, tritata. Scrivo questo senza indicare il nome del locale o la località, perché non voglio mettere alla berlina nessuno. Ma solo sottolineare un problema: se questa è la ristorazione che i nostri chef offrono ai calabresi e ai turisti, il problema è serio. L’unico pesce fresco presente in quel ristorante con vista mare mozzafiato era l’orata di allevamento, quella che compriamo ogni giorno nei banchi pescheria della grande distribuzione. E per fortuna una semplice frittura di alici.
E allora il senso di tutto questo è: perché dovrei andare in un ristorante a pagare una frittura di gamberi e calamari 22 euro (o anche di più) per poi ritrovarmi nel piatto un prodotto asiatico surgelato, pescato chissà dove e chissà quando?
Si va al ristorante per mangiare quello che generalmente non mangiamo a casa, e soprattutto per mangiare un prodotto fresco. Ancor di più se si va al ristorante di mare con il porto a pochi chilometri. Uno si aspetta qualcosa in più del pesce surgelato che tutti abbiamo nel congelatore di casa.
Sono certo che tanti ristoratori usano prodotti freschi e locali, ma purtroppo nella maggior parte dei casi i menù sono tutti così. Non dico di non usare il prodotto estero o surgelato.
Ma devi anche mettere un po’ di pesce fresco locale, altrimenti mi rimane solo la bellavista della terrazza. E non parlo di pesci rari o costosi, tipo caviale, ostriche e gamberoni di Mazara. Parlo del pesce azzurro locale, che in mani sapienti può diventare grande cucina a prezzi accessibili. Questo è il punto. Questa è la mia critica. Perché il problema non è solo il surgelato. È la mancanza di coraggio, di visione, di rispetto per il territorio e per il cliente.
È il copia-incolla dei menù, l’omologazione del gusto, la paura di rischiare con un pescato vero, magari meno scenografico ma più autentico. Il mare calabrese è ancora una risorsa straordinaria. Ma se continuiamo a trattarlo come uno sfondo per foto da Instagram, e non come una fonte viva di sapori, cultura e identità, finiremo per svenderlo a forza di orate d’allevamento e gamberi thailandesi. E a quel punto, nemmeno la vista sulla terrazza basterà più a giustificare il costo.
Lettera firmata