‘Ndrangheta in Veneto: il clan Grande Aracri tra riciclaggio, fondi neri e “flusso perpetuo” di denaro

A una settimana di distanza dall’ufficializzazione del pentimento del boss Nicolino Grande Aracri (che evidentemente covava sotto la cenere da tempo), è più che mai interessante analizzare fino a che punto si spingeva il controllo della sua cosca nelle regioni del Nord. E oltre all’Emilia Romagna si sapeva da tempo che i Grande Aracri avevano conquistato anche il Veneto. Come appare chiaro da questa testimonianza del novembre 2019. 

Anche le province di PadovaTrevisoVicenza e Venezia, ovvero quei ricchi territori del Nordest del Paese che non potevano non aver suscitato “appetiti”, sono finiti nel mirino della ‘ndrangheta.

Un controllo, un “dominio”, che per essere accaparrato non avrebbe fatto disdegnare l’uso della violenza, soprattutto nei confronti di diversi imprenditori: un “sistema”, in pratica, per entrare a gamba tesa nell’economia locale, dove uomini legati al clan acquisivano non solo il territorio ma anche le aziende per riciclare e sviluppare attività illecite.

Al centro una della cosche più note del Paese, quella dei Grande Aracri, che dalla piccola cittadina di Cutro, nel crotonese, aveva già “conquistato” il centro-Nord, in particolare l’Emilia Romagna (oramai divenuta una “base” consolidata) ma che ora si sarebbe affacciata anche al Veneto.

Questo quanto emerge almeno dall’indagine condotta dai carabinieri di Padova e dai finanzieri di Venezia, che prima hanno fatto scattare l’operazione Camaleonte andando a colpire appunto un’articolazione del clan cutrese insediatosi sul posto e adesso hanno concluso le indagini preliminari26.

I militari hanno tenuto sotto osservazione ma anche ascoltato le conversazioni di alcuni di loro, arrivando così a ritenere di aver fatto luce su diverse estorsioni ed usure, quest’ultime addirittura con tassi di interesse fino ad oltre il 300%, e le cui vittime erano molti degli imprenditori locali.

Si sarebbero anche scoperte varie operazioni di riciclaggio di grosse somme di denaro ottenute con le attività illecite e realizzate attraverso fatture false, in questo caso sfruttando anche con la complicità degli stessi imprenditori veneti.

IL “PIEDE” NELLE AZIENDE PER RIPULIRE IL DENARO SPORCO

La tesi degli inquirenti è che prima con le minacce e poi, se necessario, anche con le aggressioni fisiche (nei casi in cui le intimidazioni non fossero state sufficienti) si sarebbero modificati gli assetti societari di aziende asservite agli indagati, attribuendogli fittiziamente quote societarie e così facendo arrivare, poi, ad estromettere i legittimi proprietari.

Nel tempo gli appartenenti alla cosca sarebbero riusciti a penetrare nel tessuto socio-economico locale producendo, con la violenza e l’utilizzo delle armi, e attraverso delle società cartiere”, tutto il supporto di documenti necessari per riciclare il denaro sporcomascherando i profitti reali di aziende “pulite”, eludere anche il fisco, accantonare una ingentissima quantità di liquidità in nero e, non per ultimo, mettere a rischio i meccanismi naturali della concorrenza, producendo un danno che è stato calcolato in 8 milioni di euro, come prezzo e profitto del riciclaggio e dei collegati reati di natura fiscale.

Nel corso delle indagini sono emersi degli stretti contatti tra esponenti della cosca ‘ndranghetista e una vasta platea di imprenditori veneti e di intermediari, a cui sarebbero state consegnate periodicamente delle cospicue somme di denaro contante.

I FONDI NERI E IL “FLUSSO PERPETUO” DI DENARO

Secondo i finanzieri di Mirano, gli obiettivi raggiunti sarebbero così da un lato la possibilità,in pochi giorni e con pochi passaggi, di ripulire grossi importi facendoli apparire come frutto di operazioni commerciali.

Dall’altro l’organizzazione avrebbe lucrato una percentuale sul contante consegnato agli imprenditori, che veniva normalmente incorporata nell’Iva delle fatture false emesse dalle società cartiere ma poi non versata allo Stato.

Gli imprenditori locali, dal canto loro, con il contante ottenuto dall’associazione criminale si sarebbero creati dei fondi neri da utilizzare anche per scopi personali, oltre che vantaggi fiscali.

L’organizzazione – spiegano gli inquirenti – avrebbe sostanzialmente creato un flusso perpetuo che poteva contare su numerose società conniventi, in cui le stesse somme riciclate venivano celermente reimmesse nel circuito delle false fatturazioni, così da generare ulteriori profitti”.