‘Ndrangheta, il pentito Valerio: “Al Nord non è come in Calabria”

“Al nord il dato che conta non è il grado, ma quello che hai fatto. Io il marchio ce l’avevo: non mi servivano le medaglie e quelle cose non mi interessavano, ma non si possono rifiutare”.

A parlare è il pentito di ‘ndrangheta Antonio Valerio che oggi, durante il controesame da parte degli avvocati difensori nel filone reggiano del processo Aemilia, interrogato sulla propria carriera criminale, ha fornito uno scatto inedito della “locale” di Cutro, attiva a Reggio Emilia, Parma e nel mantovano. Quello cioè di un’organizzazione, affidata dal 2007 a Nicolino Sarcone “orizzontale” e in cui, pur nel rispetto di certe gerarchie, i membri potevano muoversi piuttosto autonomamente.

“Si decise che la’ndrangheta doveva essere diversa, la coppolicchia e la lupara erano un’icona superata. Sarebbero state bottiglie di champagne per noi se fosse rimasto cosi'”, spiega Valerio. Una cosca dunque fluida, prosegue il collaboratore, legata ma indipendente non solo alla “casa madre” di Cutro, ma anche al suo interno. “Qui c’è tolleranza, non siamo nella profonda Calabria e anche là le cose sono cambiate e la ‘ndrangheta non è più quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso (i tre cavalieri spagnoli che, nella leggenda, avrebbero fondato le mafie moderne, ndr)“, aggiunge il pentito. Valerio, che aveva preso parte a numerosi fatti di sangue ma senza aver ricevuto in premio il controllo di alcuna zona, ha ribadito più volte di godere lui stesso di uno “statuto speciale”, che gli veniva riconosciuto dagli affiliati e gli consentiva di prendere decisioni “in deroga” ai permessi dei boss a cui gli altri dovevano sottostare.