Omicidio Bergamini, 25^ udienza. Il pentito Garofalo: “La malavita non c’entra: gli assassini erano coperti da forze dell’ordine e giudici”

La testimonianza del collaboratore di giustizia Franco Garofalo ha caratterizzato la 25^ udienza del processo per l’omicidio volontario e pluriaggravato di Denis Bergamini in corso in Corte d’Assise a Cosenza, che vede alla sbarra Isabella Internò (oggi assente).

Garofalo ha ribadito con decisione che mai nessuno ha creduto alla tesi del suicidio di Bergamini e che la criminalità organizzata non c’entra nulla con il suo omicidio, motivando con cognizione di causa la circostanza e aggiungendo che chi l’ha ucciso ha potuto contare su coperture molto alte e potenti delle forze dell’ordine e della magistratura.

Franco Garofalo, boss del clan Perna, pentito dal 1996 all’epoca del processo Garden, conosce molto bene le dinamiche relative al Cosenza Calcio: “La società era sotto estorsione da parte del clan fin dai primi anni Ottanta, da quando era presidente Vincenzo Morelli – ha affermato rispondendo al pm Primicerio -. Al clan venivano versate puntualmente percentuali degli incassi delle partite e molti abbonamenti annuali”. Garofalo, quindi, sottolinea il fatto che la criminalità organizzata aveva tutto l’interesse a “proteggere” soggetti che versavano denari nelle sue casse e ricorda che era intervenuto con decisione all’interno degli ambienti criminali perché c’era qualcuno che voleva approfittare dell’omicidio di Bergamini per accusare in particolare Antonio Paese, che era vicino ai calciatori e alla società e il cui cognato Santino Fiorentino era dirigente accompagnatore della squadra.

“Mario Pranno (esponente di spicco del clan Perna, ndr) voleva buttare fango addosso a Paese – ha spiegato Garofalo – perché non era ben visto da quando aveva deciso di uscire dai clan e lavorare per conto proprio e voleva distruggerlo ma nessuno aveva creduto alla “barzelletta” relativa al coinvolgimento di Bergamini in giri di droga. Io comunque sono subito andato da Paese per capire se era coinvolto o meno nell’omicidio, ci siamo guardati negli occhi e mi ha giurato che lui non ne sapeva niente. Allora ho deciso di difenderlo e sono andato da Pasquale Pranno, fratello di Mario, per dirgli che se voleva sapere la verità doveva andare da Isabella Internò”.

Garofalo ha anche ricordato che nel 1989 era in atto una guerra cruenta con il clan dei fratelli Bartolomeo e che in pratica ha salvato Paese da pesanti ripercussioni: “Gli avevano già incendiato la macchina sotto casa: i Pranno erano una sorta di schegge impazzite del clan e l’omicidio Bergamini per loro era un pretesto per continuare a buttare fango su Paese e colpirlo”.

Il pentito Garofalo in sostanza, all’epoca, aveva svolto una sua indagine personale per capire cos’era accaduto e aveva sentito dopo poche ore anche Santino Fiorentino. “Gli ho detto di sondare il terreno con la famiglia Internò – ricorda – e lui mi riferì che aveva mandato Michele Padovano, compagno di squadra di Denis, il quale gli aveva detto a sua volta che in quella casa non c’era certo un clima di lutto e di tristezza…”. 

Ma non solo: “Ho chiesto dappertutto – ha aggiunto – ma è chiaro che non si poteva muovere foglia se non ci fosse stato il consenso della criminalità organizzata. Ho sentito anche io parlare di scommesse e di droga ma chi lo fa mente sapendo di mentire. Ne ho concluso che l’omicidio Bergamini era legato a un fatto personale”.

Salvatore Frasca

A questo punto, Garofalo ha raccontato un episodio relativo sempre alla fine degli anni Ottanta e che coinvolge anche la procura di Castrovillari del tempo. “Andammo a Villapiana da Mario Mirabile, il cognato del boss Cirillo, che comandava sulla Sibaritide e sullo Jonio e ci chiese se si poteva fare un omicidio politico a Cosenza. Volevano uccidere il senatore Frasca perché stava dando fastidio alla procura di Castrovillari, accusando i magistrati di connivenze con il clan Cirillo ma noi rifiutammo, anche perché dopo poco tempo Mirabile stesso fu ucciso nell’ambito di un regolamento di conti”. 

Nel suo esame del teste, l’avvocato della famiglia Bergamini Fabio Anselmo ha chiesto a Garofalo perché Bergamini fosse stato portato a Roseto e il pentito ha risposto: “Dovevano avere delle garanzie, c’era un appoggio”. E quando Anselmo ha sottolineato se parlasse di coperture delle forze dell’ordine e della magistratura ha risposto affermativamente, confermando la tesi. “Volevano portarci un morto in casa per i problemi che avevano alla procura di Castrovillari, quindi è chiaro che avessero coperture. Del resto, il procuratore Facciolla ha riaperto il caso perché prima non era stato fatto nulla…”. 

Le dichiarazioni di Garofalo rivestono un ruolo essenziale, dal momento che escludono altre piste al di fuori di quella privata presente alla base del processo. Nell’informativa si riconduceva l’omicidio a Isabella Internò, unica imputata per concorso in omicidio volontario pluriaggravato e alla sua famiglia. Il movente, quello passionale, visto che l’ex fidanzata di Denis non si era rassegnata alla fine della relazione con il calciatore e da allora aveva provato – si legge nella carte – “emozioni negative quali gelosia, rabbia, frustrazione, risentimento e vendetta”, fino a giungere “alla risoluzione del suo proposito vendicativo nei confronti di Bergamini, preordinando i mezzi e le modalità di attuazione del suo intento criminoso”.

La testimonianza del medico legale Pasquale Coscarelli è saltata anche oggi ma sarà recuperata nel corso del mese di novembre. Si ritorna in aula il 25 ottobre e sarà un’udienza cruciale, che prevede le testimonianze dei medici legali Testi, Bolino e Fineschi che hanno provato scientificamente come Denis Bergamini fosse già morto quando è stato steso sull’asfalto dai suoi assassini per inscenare il falso suicidio.