Per la prima volta sono tornato a Riace (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno 

Per la prima volta sono tornato a Riace. Bisognerebbe esprimersi in questo modo perché, anche fosse il primo, quello verso Riace è sempre un ritorno ed è sempre una prima volta. Dopo tutte le vicende, le polemiche, gli strascichi. Vedere chi è rimasto e cosa è rimasto. Senza eventi e manifestazioni, mimetizzarsi tra la gente e le pietre per capire ancora, dopo tutto, cosa è Riace. Dov’è ora.

Mentre il pullman piano piano si inerpica sulla montagna, lasciando il mare e dopo aver passato un più che mai simbolico passaggio a livello si ha la sensazione di iniziare uno dei viaggi di Jules Verne, verso il centro della terra, sotto i mari, sulla luna. Anche in quei romanzi si ritrovano insieme sullo stesso vascello persone con storie diversissime tra loro e gelosi dei loro segreti. E il paesaggio è in effetti lunare, brullo, arido eppure gli arbusti restano aggrappati. Mimi è là. Come in una foto. È dove ci si aspetta di trovarlo: seduto su quelle scalette al centro del “Villaggio globale”, in mezzo alla gente. Perché di persone ce ne sono tante e arrivano per vedere, per capire e Lucano non si risparmia a chi chiede. Ogni volta ricomincia il racconto.

Questa è l’epoca della rivincita per Riace. Tutte le indagini e le accuse sono cadute, si sono smontate. Però il danno è stato fatto. I laboratori che resistono sono tenuti in piedi da volontari. “Ora speriamo di riavere una parte di quello che ci hanno tolto” confida Antonio, nel laboratorio del legno. Lui era partito e grazie a Città Futura, la creatura di Lucano e dei suoi compagni, è potuto tornare. Ma fin quando si potrà resistere? Si stanno già riorganizzando. Alla fine Riace è un paesino di qualche miliardo di persone: si ha questa sensazione quando verso ora di pranzo si sente cantare una nenia in qualche lingua sconosciuta oppure quando camminando per i murales una voce da una finestra saluta Mimmo. “Ciao Mimmo”. Un rifugiato Palestinese con trascorsi in Iraq. Le storie di queste resistenze si incastrano con quelle di Peppino Lavorato, ospite “giornaliero” anche lui, che si commuove davanti al murales di Valarioti, ammazzato in Calabria sulle braccia di Lavorato. Altre resistenze.

Pare allora di sentire in quella nenia e tra le vallate sotto il paese, le voci dei braccianti, degli immigrati calabresi, degli sfruttati di ieri e di oggi. In una Babele ricomposta dove il legame tra significante e significato non è più imposto da codici artefatti, ma viene fuori naturalmente. Dove non c’è più bisogno di sei lettere per scrivere lavoro, di otto per riscatto, ma ci si intende perfettamente. Lucano mostra la fattoria: una vallata scavata e composta a terrazzamenti dove trovano alloggio animali e si ricostruiscono vecchi passaggi. Spiega inframmezzandosi di pause e riflessioni come se i denti fossero le pietre nelle quali la lingua inciampa come farebbe chi risale quella vallata. Come se tutti i significati di quel lavoro benché evidenti fossero (anche qui) incomunicabili. “C’è anche una riscoperta del ruolo sociale dei territori” dice Lavorato e Lucano risponde “Questo è il famoso abuso edilizio!”. E Lavorato di rimbalzo: “La procura di Locri è essa stessa abusiva dovrebbe notificarla a se stessa”, infine prova una breve analisi: “Qui si respira il socialismo reale, non quello sedicente che c’è stato”.

Quindi cos’è Riace? Il socialismo. No, sono i suoi bambini. Quando nel pomeriggio tutte le parole, le riflessioni e i dubbi, vengono sommersi dalle loro urla. Anche qua, le parole sono superflue. Ci si capisce perfettamente. E i bambini straripano, scorazzano ovunque, non conoscono limiti entrano nei bar nei negozi, anche dove fuori le vecchie espressioni, tipicamente calabresi degli anziani al bar sono più diffidenti. Qualcuno confida “Da quando molti se ne sono andati è veramente difficile” E se poi provi ad essere più diretto: “Ma perché avete cambiato? Cosa non ha funzionato?” Entrano velocemente dentro, schivano la risposta. “Il discorso è lungo, non ho tempo… ma non è cambiato nulla, c’è sempre Lucano”. Quel che è certo è che nessuno vuole definirsi leghista e se Salvini ha potuto mettere il cappello è solo per dinamiche interne, per disorganizzazione degli altri. Ma alla fine nessuno può far a meno che sorridere complice ai bambini.

All’imbrunire Lucano è ancora là sulle sue scalette. Il suo posto è là, non lo è stato né alla regione, né a Bruxelles. Viene da sedersi in quella sua specie di poltrona dura fuori dal palazzo. Per capire come si vede il mondo su quei tre gradini. E a sorpresa Lucano si scopre stanco, forse un po’ diffidente anche se non lo vuole ammettere. Famoso nel mondo per la solidarietà confessa: “Questo non era partito come un progetto di solidarietà. La mia era una critica verso la società consumistica, materialista. Volevo una comunità controcorrente, che riscoprisse il valore delle cose fatte a mano, delle gioie e dei dolori condivisi tutto questo è venuto dopo. Il modo di trattare l’immigrazione è solo uno degli aspetti” Vengono in mente le encicliche di Papa Francesco, sulla società dello scarto e del rifiuto. Vale per gli oggetti e anche per le persone ridotte a oggetti. Il problema è la logica della convenienza che investe anche (e forse soprattutto) chi di parole come solidarietà e aiuto fa una bandiera.

A Riace vogliono tutti mettere la loro bandiera. “A parole è bella la solidarietà, ma poi prendono solo, visibilità, nome. Siamo pieni di queste situazioni, soprattutto nel momento di massima difficoltà. Se invece si partisse dall’indignazione sarebbe diverso…”. Una critica più dura di quelle che vengono da destra. Questo mondo è riuscito a far diventare diffidente anche Lucano viene da pensare, d’altra parte Pasolini (a cui Lucano si ispira) diceva spesso che libertà coincide con solitudine.  E a ben guardare le facce che curiose si aggirano per Riace le più autentiche sembrano proprio quelle dure e perplesse dei calabresi locali e meno quelle di alcuni altri che arrivano pieni di buoni propositi, ma che non riuscirebbero a fare a meno del telefonino per il selfie.

Aspettando il bus si sente un ragazzo, forse di ritorno dal lavoro, esclamare un “ah … mannaia” (mannaggia in calabrese) e poi iniziare un discorso nella sua lingua. Come se ogni fatica e ogni dramma avesse la sua lingua e la stanchezza del lavoro non si potessero che esprimere in calabrese. L’unità è ricomposta. L’universale e il particolare combaciano. Il legame tra significante e significato non è più stabilito dai padroni che hanno conquistato i deserti o il sud Italia. Alla fine Riace non è altro che quel pensiero che si prova quando un bambino ti chiede di venire in braccio, tu sei stanco, ma lo prendi ugualmente. Perché no.