Calabria 2021. Unicef e poteri forti: da Francesco Samengo alla signora Ventura

In Calabria lo sappiamo tutti da decenni che la gestione dell’Unicef è saldamente nelle mani dei cosiddetti “poteri forti” ovvero dei “colletti bianchi” con le mani in pasta nella massoneria e nella malapolitica, capaci di creare dal nulla carrozzoni squallidi all’interno dei quali sono stati depredati milioni e milioni di fondi pubblici.

Maria Antonietta Ventura, tragicomica candidata del Pd (per il M5s la situazione invece è caotica dopo la resa dei conti tra Conte e Grillo), è diventata presidente del Comitato regionale succedendo a Francesco Samengo, che è stato anche presidente nazionale dell’Unicef e che la stessa ha definito “… un calabrese esemplare, che partendo dalla sua Cassano allo Jonio ha saputo raggiungere importanti risultati. Punto di riferimento per tutti…”.

Samengo è scomparso recentemente e nessuno tra i media calabresi, servili per antonomasia, ne ha voluto ricordare fino in fondo il percorso ma non possiamo metterci le fette di prosciutto davanti agli occhi e dimenticare che Samengo aveva un potere infinito in Calabria, esplicato in maniera imbarazzante attraverso la sua creatura, Sviluppo Italia Calabria, meglio nota come “Sviluppo Parenti” per l’indecente numero di figli, cognati, sorelle, cugini e parenti vari di politici, sindacalisti, giudici assunti senza concorso, per chiamata diretta. Eppure sfrontati e decisi, al pari del loro pigmalione, a sostenere bellicosamente d’essere stati assunti per brillanti meriti professionali.

Che la società, al di là della pomposità manageriale della «mission» dichiarata («L’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa è impegnata nella ripresa di competitività del Paese, in particolare del Mezzogiorno») sia diventata negli anni un carrozzone non è una novità.

Lo sosteneva persino il Sole 24 Ore che ne aveva chiesto la chiusura perché «sbaraccare sarebbe un segnale di svolta più forte di qualunque riforma annunciata». E lo aveva ammesso perfino l’amministratore delegato Domenico Arcuri, sì proprio lui, il calabrese che ha lavorato col governo Conte da commissario nella prima drammatica fase della pandemia: «Ho ereditato una farsa – diceva Arcuri nel 2007 -, una società con una struttura così elefantiaca che al cospetto la General Motors si intimorisce».

Basti ricordare che il gruppo è stato per decenni un arcipelago di 181 società dotato di 492 amministratori, in larga parte legatissimi alla politica. Nelle sole «controllate» sedevano 168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri degli organismi di vigilanza per un totale di 339 persone.
Quanto ai dipendenti, erano 1.719, organizzati in maniera folle: il 63% negli «staff» e solo il 37% nelle «linee», da dove vengono i ricavi. Per non parlare delle gerarchie che, come ha scritto sul quotidiano economico Nicoletta Picchio riprendendo la denuncia dello stesso Arcuri, sono eccentriche: «Un dirigente governa due quadri, tutti e tre comandano 5 impiegati».

C’è poi da stupirsi – si chiedeva invece il giornalista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella, autore del celeberrimo best seller “La Casta”, se, stando ai dati Luiss Lab, Sviluppo Italia ha attratto investimenti stranieri nel triennio 2003-2005 per un totale di 297 milioni di euro contro i 760 veicolati in un solo anno, nel 2005, dalla omologa di Dublino che potremmo chiamare «Sviluppo Irlanda»?
Dentro un quadro come questo, che ha spinto i vertici a giurare su una svolta netta con una riduzione del personale degli «staff» dal 63 al 20 per cento, un taglio di 601 dipendenti e una radicale ristrutturazione delle strutture periferiche, la Calabria meritava già allora una messa a fuoco.
Se la Sicilia aveva due sedi a Palermo e Catania, la Puglia una più due «incubatori» e la Campania ancora una più due «incubatori», l’assai meno popolata Calabria ne aveva addirittura cinque. Quattro sedi a Cosenza, Crotone, Reggio e Vibo Valentia più un «incubatore» a Catanzaro. Ed ecco che Gian Antonio Stella ci spiega, anche se in maniera decisamente “minimalista” rispetto alla mole di interessi e di intrecci del Nostro, chi era Francesco Samengo.

FRANCESCO SAMENGO

“… Come mai? Tutto «merito», dicono affettuosi gli amici e critici gli avversari, di quello che è stato il patriarca calabrese della società: Francesco Samengo. La cui biografia merita qualche riga perché rappresenta plasticamente le contraddizioni della macchina pubblica. Venti anni fa venne infatti passato allo spiedo dagli ispettori mandati dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi a capire come diavolo avesse fatto la «Carical» (Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania), a lungo feudo della Democrazia cristiana e pilastro d’una politica spendacciona e clientelare, a inabissarsi in una voragine di mille miliardi di debiti. Saltò fuori di tutto.

Mutui accordati per pagare assegni protestati. Altri accordati accendendo due o tre ipoteche sulla medesima casa. Conti in rosso da incubo tollerati in base a «una buona impressione soggettiva». Fidi da tre miliardi di lire dati per «finanziamento campagna pesche e pomodori » a un tipo che assicurava (e nessuno controllò se fosse vero) che avrebbe avuto un contributo europeo. Prestiti astronomici concessi «in attesa incasso contributo della Regione Calabria» nonostante fosse stata accertata «l’inesistenza della contabilità interna» del cliente.

Una gestione scellerata. Che sfociò in un tormentone processuale evaporato tra rinvii e assoluzioni, rinvii e prescrizioni. E in una causa civile, con richiesta di danni per 80 milioni di euro, contro vari amministratori tra i quali appunto Samengo. Allora ras della banca a Cassano Jonico. Dove una casalinga (Angelina Lione) era arrivata ad avere un mutuo dando in garanzia «costruzioni abusive» e a ottenere finanziamenti vari, secondo Bankitalia, «denunciando un patrimonio netto di 4,3 miliardi esistente solo nella sua mente». Altri, in Paesi seri, sarebbero stati spazzati via. Samengo no.
E dopo qualche anno di apnea, grazie all’appoggio dell’Udc («io non ne so niente di niente», giurò Giulio Tremonti) si ritrovò nel 2002 promosso ai vertici nazionali di Sviluppo Italia da quello stesso Stato che da lui avanzava i soldi della Carical. Bene, bravo, bis…”.

Fin qui Gian Antonio Stella, che ovviamente ricordava tutto l’elenco dei papponi raccomandati appartenenti a tutto l’arco politico imbucati dentro Sviluppo Italia, dalla (ex?) moglie di Robertino Occhiuto, al secolo Giada Fedele, ai nipoti dei Cinghiali di Cosenza, al secolo Pino e Tonino Gentile, alla sorella della compianta Jole Santelli per passare a congiunti di giudici, carabinieri e tanti politici di destra e di sinistra. In questo quadro generale di totale squallore, Samengo trovava anche il tempo di occuparsi dell’Unicef quasi fosse un “paravento” a questo schifo. Tornando a bomba al concetto iniziale, nessuno allora deve stupirsi se a succedere al potentissimo Samengo sia stata chiamata proprio la dolce signora Ventura in De Tommaso ovvero il grimaldello inventato dal sistema massomafioso per impedire a De Magistris di vincere le elezioni in Calabria. Dio li fa e poi li accoppia… Povera Calabria nostra!